The War On Drugs - Lost In the Dream

di MonkeyBoy, Vinylistics

25 Marzo 2014

Non sono uno che ama fare i paragoni a tutti i costi, ma se devo confrontare l’ultimo lavoro dei Real Estate e questo terzo album dei War On Drugs, in entrambe le circostanze mi trovo davanti alla decisiva prova della maturità. In un caso è rimandata ai corsi di recupero estivi (del tipo, è bravo ma non si impegna abbastanza), nell’altro è superata a pieni voti con accademica pacca sulla spalla da amicones.

Adam Granduciel in verità nasce Adam Granofsky a Dover nel Massachusetts e sarà una sua insegnante di francese a proporre, con la nota ironia che i francesi si portano appresso, il passaggio da Gran-of-sky a Gran-du-ciel come gioco di parole. Poi deve essersi andata a mangiare una baguette con burro e foie gràs tutta soddisfatta per la sua uscita. Questo per dire che il nostro non ha mai avuto un rapporto idilliaco con il sesso femminile. A 22 anni si trasferisce in California dove matura una specie di ossessione per la figa musica; quando non lavora come cameriere di una tavola calda, passa il tempo a comporre musica nella sua cameretta, ascoltando senza sosta Dylan e Neil Young. Poi però il richiamo della East Coast è troppo forte, e l’arrivo a Philadelphia coincide con la conoscenza di Kurt Vile, con cui nel 2008 pubblica il primo album dei War On Drugs, "Wagonwheel Blues" (e della cui band, The Violators, è chitarrista fino al 2011). Poco dopo l’uscita di quel disco il sodalizio musicale nei TWOD si interrompe e Granduciel deve trovarsi una band per conto suo. Ci riesce talmente bene che a tre anni dall’esordio, Slave Ambient è il disco che fa uscire il gruppo dall’anonimato; un lavoro davvero notevole che tra indie, folk, neo-psichedelia e shoegaze definisce un sound ben riconoscibile e indubbiamente getta le basi per questo "Lost In The Dream".

Pubblicato via Secretly Canadian (Suuns, Gardens & Villa, Antony And The Johnsons) vede l’ex mr. Granofsky (voce, chitarra, armonica, sampler) scrivere musica e testi, mentre in fase di registrazione si aggiungono Dave Hartley (basso, chitarra), Robbie Bennett (tastiere, chitarra) e Patrick Berkery (batteria). Prodotto dallo stesso Granduciel viene registrato tra gli studi di Philadelphia e poi a Nashville, in North Carolina, New York, New Jersey - durante i due anni e più del tour a supporto del clamoroso Slave Ambient - ed è atteso un po’ da tutti, addetti ai lavori e non, come il disco della svolta, lontano anni luce dall’ombra del Vile. Non voglio anticiparvi nulla, ma a conti fatti si può benissimo affermare che la vera star, la mente pensante, fin dall’inizio è stato proprio l’amico Adam e non l’amico Kurt. Per capire fino in fondo dove affondino le radici di "Lost In The Dream" bisogna scavare in alcune tra le migliori cose della tradizione americana - Tom Petty (soprattutto nel cantato), i già citati Dylan e Young, Springsteen e quel gusto cinematografico e letterario per l’on the road alla Jack Kerouac - con qualche pennellata qua e là di shoegaze e britpop. Il passo decisivo, qui, è portare l’enorme bagaglio musicale di Adam Granduciel dall’underground finalmente al mainstream come precisa scelta strategica. Perché al netto della sua personalità schiacciante e omnicomprensiva, nell’ultimo biennio The War On Drugs sono diventati una vera band e allora i 10 brani del disco vogliono riflettere la quasi perfetta combinazione di musica, parole e atmosfere che vengono sì dall’anima del frontman ma che trovano la sintesi ideale nell’alchimia del collettivo. Inoltre come dicevamo poco sopra, questo è il primo lavoro della band di Philadelphia ad aver suscitato grandi attese e fomenti, a cui il nostro eroe sceglie di rispondere con canzoni dalla struttura semplice, arricchita successivamente per addizione in un crescendo quasi continuo.

Non a caso ad aprire è "Under The Pressure" che in quasi 9 minuti di sabbiosi piatti elettronici, tastiere fumose e chitarra dreamy rappresenta nei temi e nel ritmo l’essenza stessa dell’album, una sorta di ansiosa metamorfosi che parte dal folk-rock per tramutarsi in una specie di shoegaze sul finale. E’ bellissima ed è un primo episodio in cui l’artista svela qualcosa di sé: il peso di dover essere all’altezza delle aspettative che gli altri hanno su di te e le difficoltà a ciò connesse. La naturale prosecuzione dal punto di vista musicale è il primo singolo estratto, "Red Eyes", forse una delle migliori e più complete canzoni della band, che va a dimostrare come questo sia un album indiscutibilmente rock - non solo nelle intenzioni ma ancor più nella resa - riuscendo anche a conferire un marcato senso cinetico peraltro già presente a partire dai titoli di alcuni brani, come se tutto "Lost In The Dream" fosse un sogno in movimento. Così, se altrove la magnifica e sostenuta "Burning" ricorda lo Springsteen di Dancing In The Dark, "Suffering" col suo pianoforte malinconico ed una guitar carica d’effetto è il momento riflessivo dopo una partenza assai sostenuta nonché lo struggente manifesto del periodo di depressione e isolamento in cui da un paio d’anni - cioè dall’agosto 2012, quando si apprestava a cominciare le registrazioni - si è rifugiato Granduciel dopo la fine di una relazione molto importante con la sua tipa di allora. E’ poi "Disappearing" - dove ancora una volta una chitarra disperata dà il colore alla stanza e si unisce ad un beat molto elettronico - col suo lungo finale a chiudere, come se si trattasse del lato A di un vecchio vinile, una prima parte venata di tristezza ma musicalmente strepitosa ed onirica.

Per sua stessa ammissione la ricerca di sé ed il contemporaneo raggiungimento della perfezione per questo terzo LP hanno sfiancato il cantante fisicamente e psicologicamente; più ci si addentra nell’ascolto di queste canzoni più si ha la netta sensazione che "Lost In The Dream" sia il culmine di un periodo di purificazione, non solo un album da comporre ma un qualcosa da dover espellere a tutti costi dal proprio corpo. Potremmo chiamarlo "L’Esorcismo di Adam" e farci un found footage movie, ma avete capito cosa intendo. Non stupisce, dunque, che manchino metafore colorite e facili, ma prevalga il sentimento drammatico, in un alternarsi di momenti luminosi ed introspettivi che si riflette in uno schema fatto di pause ed accelerazioni. Tra le prime troviamo la title-track, uno sguardo al passato apparentemente felice dove a guidare è l’armonica come nella migliore tradizione americana,  tra le ultime si distingue "Eyes To The Wind" - una trionfale ballata (cautamente) ottimista, di stampo dylaniano - dove tra corni, piano e sax (e qui i War On Drugs si dimostrano sul pezzo, vista la moda del momento) la vaga retorica dei testi non è mai esagerata, non diventa mai cliché.

L’autenticità - attraverso cui ora Granduciel vuole creare una connessione ad un livello diverso, dove l’ascoltatore non conosca solo gli accordi ma si riconosca nei testi - sta anche nel fatto che, a differenza del passato dove abbondavano momenti di sola atmosfera, questo è il lavoro dei The War On Drugs maggiormente orientato alla forma-canzone dove fa eccezione solo "The Haunting Idle", l’episodio più sperimentale che in verità profuma molto di Pink Floyd ma che denuncia la volontà della band di non fossilizzarsi mai e forse apre a scenari futuri. Il resto dei brani fluiscono gli uni negli altri con continuità, e a dispetto della loro lunghezza (parliamo di 10 tracce in 60 minuti) non perdono mai il ritmo, né calano mai d’intensità. In questo senso i 7 minuti e rotti di "An Ocean In Between The Waves" - oltre a rimandare ai Dire Straits nell’andamento sostenuto ed ondeggiante e palesare una solidità vocale cresciuta implacabilmente nel tempo - sono forse il punto più alto di un disco dove la band è sempre in totale controllo.

The War On Drugs sono, allora, la band più promettente di Philadelphia, e non ci vorrà granché alla fine. Ma Adam Granduciel è uno degli autori più promettenti d’America e si dovrà tenerlo d’occhio in futuro. Nelle sue intenzioni, "Lost In The Dream" voleva essere uno sfacciato calcio nelle palle che ricordasse alla gente come dovesse suonare la musica, quella con la M, roba da farti alzare dalla sedia e uscire per strada a correre per la città dell’amore fraterno come solo Rocky. Per fare ciò si è guardato dentro, si è messo pesantemente in gioco coinvolgendo maggiormente il suo gruppo di amiz da un lato e mantenendo dall’altro il comando delle operazioni, all’apparenza chirurgico e lucido ma in verità pieno di debolezze e dubbi. Per questo motivo ciò che ne è venuto fuori è qualcosa che alla fine, dopo averlo ascoltato tutto e forse più volte, ti fa quasi piangere dalla gioia, così omogeneo eppure pieno di sfumature, sicuramente un primo punto di arrivo di un songwriter che mettendo a nudo se stesso ha donato al mondo l’album della definitiva consacrazione, uno splendido e sfuocato sogno lungo un’ora.

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