IN&OUT #Venezia71: La Mostra del Cinema vista dal buco

di Silvia Jop, il lavoro culturale

1 Settembre 2014

Uno sguardo dentro e fuori le sale della 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. A cura di Silvia Joplavoroculturale.org

Ci sono cose che per decollare devono prendere la rincorsa, altre invece sembrano sempre esistite anche nell’istante in cui cominciano.
Succede così ogni anno al Lido di Venezia, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia che, pur piombando sull’isola come un meteorite, poco dopo il suo avvio, pare accadere tra le righe di una sequenza senza interruzioni rispetto all’edizione precedente.

Basta piazzarsi di fronte alle transenne che costeggiano il red carpet di fronte al Palazzo del Cinema, per ritrovarsi tra le pareti di questa bolla senza tempo fatta di ragazzine smaniose di vedere attori, registi, starlet di turno, fotografi che rivolgono gli obiettivi al di qua e al di là della passerella, uomini e donne imbrigliati nei loro accrediti che rimbalzano dal petto al mento, mentre si affrettano a raggiungere la proiezione del film che rischiano sempre di perdere e - immancabile incursione che restituisce a questa manifestazione la sua impercettibile vena locale - signore che, appena uscite dalla spiaggia, attraversano la folla con le loro biciclette arrugginite e i polpacci ancora insabbiati, una volta pedalando verso il pranzo a casa e quella dopo verso il supermercato prima che chiuda.

L’unico irresistibile ma pressoché invisibile punto d’incrocio tra Venezia e il Festival trova la sua possibilità di realizzazione proprio tra le maglie di questo fiume di corpi. Non dovreste stupirvi infatti se vi accadesse di vedere una di queste signore in bicicletta immerse nella loro quotidianità che, costretta a rallentare la pedalata da Al Pacino mentre, invisibile, cammina tra i passanti comodo e protetto solo dai suoi occhiali da sole, si mettesse a gridare: «E ora?!?! el vol cavarse da mezo?! Dai che go da passar!» («E allora? Vuole levarsi dai piedi? Dai che devo passare!»).
E come se non bastasse, la cosa più irresistibile è che, per una serie di fattori difficili da individuare e tradurre in sole due righe, trovereste questa signora non maleducata bensì terribilmente elegante nel suo farsi strada così irriverente.

L’amarezza sta nel realizzare che questa “irresistibile irriverenza”, per l’appunto, è l’ultimo residuo della straordinaria capacità di una popolazione che a lungo è stata in grado di sopravvivere a se stessa e al mondo. Venezia, città donna, città del sempre nascere, del coltivare e del nutrire una forma di ironia leggera e tagliente, una sorta di “colto dissacrare” che non si piega all’imbellettamento di una realtà impacchettata e ingessata che si impone su un’altra. La mobilità ondulatoria e marinara, strutturale della “venezianità” – che non necessariamente appartiene a chi ci nasce ma che tendenzialmente pervade chi la vive – è stata per secoli una risorsa non solo per quanto concerne il sapere del viaggio, dell’attraversare, dell’andare e del tornare, ma anche e soprattutto per quanto riguarda una certa forma dell’esistere. In una città così fisiologicamente “mossa”, una relazione, in virtù di questa terra fatta d’acqua mai ferma, è sempre dispari. E questa irriducibile disparità è sempre stata uno strumento per smontare facilmente la tendenza dell’alto a restare sempre tale e al basso di non potersi mai emancipare.
Di questa abilità, di questa ricchezza di postura, oggi resta ben poco e la Mostra del Cinema al Lido diventa uno spazio paradigmatico per constatarne il tramonto.

Il mondo approda al Lido di Venezia in questi giorni per incontrare, sfogliare e assaggiare la crema di una cultura cinematografica che, nonostante le difficoltà economiche che spesso rendono difficile in questo paese una produzione culturale di qualità, conferma anche la propria ricchezza.

Con il Leone d’oro alla carriera allo sguardo di Wiseman, l’anatomica crudezza di Oppenheimer, l’esperimento ben riuscito di Iñárritu con Birdman, e le tinte forti e italiane di Munzi e Maresco, queste prime giornate di Festival hanno nutrito il popolo della Mostra che abita, a tratti troppo ciecamente, il perimetro del Lido costruito attorno alle sale cinematografiche riqualificate per questa settantunesima edizione. Per il quarto anno consecutivo infatti, il vero protagonista di questo Festival continua ad essere il buco che è stato scavato una volta sradicata la storica pineta che vi sorgeva in precedenza, per fare spazio alle fondamenta del nuovo Palazzo del Cinema. Buco che è rimasto aperto, senza che i lavori di costruzione siano mai stati avviati, a causa dei quintali di amianto che ne sono emersi e che, per questioni economiche e amministrative, non solo non sono mai stati rimossi ma nemmeno completamente ricoperti.

Ne abbiamo parlato in modo approfondito due anni fa, quando la recinzione attorno al buco rendeva la visione più nuda e cruda, quando ancora non era stata ricoperta da un compensato blu cosparso di pubblicità che dovrebbero distrarre osservatori più attenti di altri.

Si tratta della storia di un fallimento, tutto italiano, i cui attori sono, come ahimè ormai quasi sempre in questo paese, amministrazioni bucate che svendono le proprie città affidandosi ad imprese private intenzionate a speculare sulle debolezze di un territorio e che, sulla base di questa prospettiva, finiscono per rilevare pezzi interi di quelle stesse città avviando progetti che non ne valorizzano le possibilità di residenzializzazione bensì ne favoriscono la vendita, la ri-vendita e la svendita.
Nonostante gli anni trascorsi, di quella storia l’unico nuovo capitolo è il fallimento di Est-Capital, la società che si era aggiudicata l’acquisto dell’Ex-Ospedale al Mare, area dell’isola che rientrava nel progetto di riqualificazione all’interno del quale era previsto anche l’avvio dei lavori per la costruzione del Nuovo Palazzo del Cinema.

All’epoca, a sollevare lo scandalo erano stati gli occupanti del Teatro Valle Occupato che, forti dell’esperienza politico-culturale avviata, e in collaborazione con il Sale Docks, avevano occupato il Teatro Marinoni, piccolo teatro liberty dell’Ospedale, avviando un’esperienza di liberazione e di disvelamento di una vicenda buia nascosta dall’ombra dei riflettori di una delle più grandi manifestazioni cinematografiche del mondo. La genesi dell’occupazione di quello spazio vibra tutt’oggi grazie alle persone che negli anni hanno continuato a sostenerne una vita sempre nuova, resistendo all’abbandono delle istituzioni e alle ripetute minacce di sgombero che stanno decimando nel resto del paese esperienze simili a questa.

Il permanere di quel buco oggi, sempre più nascosto, è il sintomo lampante di un atteggiamento drammatico che il nostro paese continua a riservare a se stesso continuando ad illudersi che non gli nuocerà. Ma la mancanza di cura, l’incapacità di saper coltivare uno sguardo ampio in grado non solo di nutrire chi fa e produce cultura ma anche di divorare la cultura che viene prodotta, dando la possibilità a ognuno di cibarsene, sta frammentando in modo sempre più violento i corpi ormai secchi e inariditi dei luoghi e degli uomini e delle donne che li abitano.

Guardare dentro a questo buco, ci strappa dalle poltroncine comode di un cinema per sbatterci in faccia il mostro della realtà che lo ospita senza la mediazione dello schermo.

Mentre la voragine di amianto a cielo aperto permane (tra le voci di corridoio quella più verosimile è che non ci sia nessuno disposto ad investire la somma necessaria alla sua bonifica), sono stati stranamente invece trovati i finanziamenti per avviare le ristrutturazioni del piazzale di S. Maria Elisabetta, approdo di tutte le linee di vaporetti che collegano il Lido alla centro storico di Venezia – seppur non versasse in condizioni particolarmente disagevoli – e, in continuità con il progetto di ristrutturazione di questo piazzale, l’intero viale che collega S. Maria Elisabetta al lungo mare delle spiagge, sta per essere completamente sventrato per essere anch’esso rifatto. Il tutto, ancora una volta, sradicando gli alberi che vi sorgono da decenni.
I cittadini e le cittadine, nuovamente, insorgono. Le istituzioni, nuovamente tacciono o temporeggiano.
Nel frattempo il Mose, assieme alle bocche di porto, si è mangiato le casse della città, i dipendenti del Comune si vedono per questo decurtare stipendi, i servizi alla persona sono sempre più carenti, il buco rimane, l’amianto pure, gli alberi sani vengono strappati dalla terra, e anche noi non ci sentiamo tanto bene.

Meno male che c’è Poveglia e la rete di persone che continua a lavorare e progettare perché diventi una vera capitale dei beni comuni: di a da in con su per tra fra, la cittadinanza.

Ma ora basta, si torna in sala…

 
 

Tratto da:
www.lavoroculturale.org

 
 
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