Ritenuto uno dei più bei libri di sempre, "La passeggiata" di Robert Walser, nella magistrale traduzione italiana di Emilio Castellani, è una lezione di scrittura, di storia, di impegno civile e politico, di vita

ReadBabyRead #195 del 18 settembre 2014

Robert Walser: “La passeggiata” (2/6)

18 Settembre 2014


Robert Walser

La passeggiata
(parte 2 di 6)


per info su F. Ventimiglia e C. Tesser:

Lettura e altri crimini
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Legge: Franco Ventimiglia


Ich teile mit, daß ich eines schönen Vormittags, ich weiß nicht mehr genau, um wieviel Uhr, da mich die Lust, einen Spaziergang zu machen, ankam, den Hut auf den Kopf setzte, das Schreib- oder Geisterzimmer verließ, die Treppe hinunterlief, um auf die Straße zu eilen. Beifügen könnte ich, daß mir im Treppenhaus eine Frau begegnete, die wie eine Spanierin, Peruanerin oder Kreolin aussah. Sie trug etwelche bleiche, welke Majestät zur Schau”.


La passeggiata

Nota del traduttore


Perché La passeggiata di Robert Walser dia subito una tale impressione di straordinaria altezza poetica, non è facile spiegarlo. Bisognerebbe dedicarsi a una ricognizione, paziente quanto faticosa, attraverso l’intera opera dello scrittore, opera innegabilmente arruffata e discontinua (nonostante il magistero di penna che la distingue in grandissima parte) per l’affollarsi di stimoli razionalmente mal conciliabili; e da tale ricognizione estrarre, fissandoli, gli elementi costitutivi della personalità dell’artista - introversione, visionarietà, umiltà, tendenza a minimizzarsi, rassegnazione, orgoglio frustrato, volubilità, ironia ecc. - e indagare quindi da quale loro felice combinazione sia sorto questo testo non solo perfetto, ma esemplare ed emblematico. La «Lust zum Wandern», la smania vagabonda, che, a iniziare dai Geschwister Tanner, il suo primo romanzo, prorompe in tante opere di Walser, prevaricando incontenibilmente sulla «Lust zum Fabulieren» (gioia di raccontare) fino a snervare e smagliare troppo spesso i contorni della narrazione o rappresentazione, qui si rastrema e assesta in dimensioni pacate: la «Wanderung», delizia e fatalità del romanticismo più scatenato dallo Sturm und Drang in giù, da Lenz e Buchner fino a Schubert e Mahler, stavolta si mantiene nei limiti di un ideale «Spaziergang»: passeggiata, randonnée.

I limiti corrispondono alla zona circoscritta che è intimamente familiare allo scrittore: quel «paese di laghi» a cui egli intitolò la raccolta di prose (Seeland) comprendente, appunto, La passeggiata e cinque altri pezzi ugualmente raffiguranti/trasfiguranti esperienze tratte dalla sua vita dopo il ritorno alla cittadina natale. Con quel ritorno Walser espiava l’esplosione di vagabondaggio che era stata la sua migrazione a Berlino, il suo tentativo di cercare il successo in un ambiente cosmopolita e su un piano di mondanità che non gli si addicevano, diversamente da quanto era avvenuto per suo fratello, il pittore e scenografo Karl. Ma l’espiazione aveva anche significato riprendere terra. Per alcuni anni (dopo i quali, purtroppo, l’inquietudine rincomincerà) il microcosmo di Biel sarà per lui laboratorio e osservatorio insieme, una di quelle collinette panoramiche a lui tanto care perché permettono alla vista di spaziare sugli svariatissimi - e pur legati da una profonda coerenza - aspetti del suo «paese di laghi», la Svizzera: brulicante ma armonioso coesistete di contrapposizioni, terra e acque, città e campagna, civiltà industriale e contadina, avita costumatezza e brutale massificazione, ai piedi della cerchia misteriosa di grandi montagne che chiude l’orizzonte.

Ma sulla Passeggiata non incombe, almeno all’apparenza immediata, il «vento preistorico delle Montagne Gelate» di cui Roberto Calasso avverte il soffio parlando dello Jakob von Gunten. La felicità che riempie il narratore, man mano egli viene enumerando e descrivendo lo stuolo di apparizioni e di fenomeni in cui si imbatte nel suo cammino, rimane sempre autentica, anche quando la fantasia gli s’impenna e la sua interiorità si popola di rapimenti e di visioni non tutte liete. L’ironia, che ha tanta parte nell’atteggiamento di Walser e che suona talora un poco coatta, qui non si ritorce mai a danno del tessuto complessivo del racconto (o meglio relazione, «Bericht»): come nel Buonannulla di Eichendorff - l’esempio cui sovente, e con generalizzazione un po’ facile, Walser viene riportato - il sorriso prevale sul rovello, sul dispetto, sul sospetto, lo slancio amoroso del poeta verso il mondo circostante non è mai mortificato.

Indubbiamente, egli procede come un equilibrista sulla corda, con l’angoscia costante di essere colto dalla vertigine, abbagliato da luci insostenibili, di cozzare contro soverchianti mostri e giganti. La labilità innata che lo insidia non gli consente d’incitare, come Goethe, a folle corsa il postiglione Kronos: a quel ritmo selvaggio, a un confronto così ineguale, egli sa per esperienza di non poter reggere; gli è necessario conservarsi fisicamente e psichicamente sobrio, non cedere ai richiami accennanti lungo i margini della strada (simbolico sotto quest’aspetto l’episodio della signora-strega Aebi). La bellezza delle cose reali è per lui un incanto continuo, una fonte incessante di gioia e di esaltazione, ma non per questo omette d’intrattenere il lettore sulle traversie e le tristezze della sua vita di passero solitario (ed ecco le esperienze nella banca e all’ufficio delle imposte), sulle difficoltà che gli causa il commercio coi potenti, coi «competenti», coi «maestri» d’ogni specie (la lettera al «molto venerando signore», la prova dal sarto, ecc.), insomma su tutte le reazioni, positive e negative, che provocano in lui gli incontri e gli scontri con la vita. Quella vita, piena e sicura della sua consistenza, alla quale egli è dolorosamente conscio d’essere impari - ma non è meno dolorosamente conscio, nello stesso tempo, della fallacia (o verità dimidiata), della duplicità e caducità della vita stessa. A sollevarlo dall’intreccio angoscioso di tristi consapevolezze e di esorbitanti entusiasmi varrà, allora, la pace solenne di un bosco, la contemplazione di un’umile campagna riposante nel tramonto del sole. Così, oscillando tra alti e bassi che miracolosamente si compensano (compensazione che però è agli antipodi di ogni possibile intellettualizzazione dialettica), la corda dell’immaginazione rimane tesa sino alla fine. E la mestizia della conclusione è il necessario sigillo dell’allegoria esistenziale e del personalissimo trattato - o «tesoro» - di poetica che non possiamo non riconoscere nella Passeggiata.

Emilio Castellani


Robert Walser scrisse la prima versione di Der Spaziergang nel 1916; nell’estate del ’17 il racconto fu pubblicato dall’editore Huber Se Co. di Frauenfeld. L’anno successivo lo scrittore approntò una seconda versione, stilisticamente più sorvegliata (che è quella qui tradotta), per un volume intitolato Seeland, comprendente, oltre a questa, altre cinque prose scritte nel biennio precedente. Il volume - offerto dapprima all’editore Huber, che lo rifiutò - apparve tra il ’19 e il ’20 in edizione numerata di 600 esemplari, illustrato da acqueforti appositamente eseguite da Karl Walser, per i tipi del Rascher Verlag di Zurigo. Sia il racconto che la raccolta conobbero varie altre edizioni: definitiva è da considerarsi quella inclusa nel volume III del Gesamtwerk [Opera Omnia] di Robert Walser, Verlag H. Kossodo, Genf-Hamburg, 1967. Walser morì il giorno di Natale del 1956, settantottenne, durante una solitaria passeggiata invernale.


Per il cinquantenario di Robert Walser (2006)

Se Don Chisciotte fosse svizzero e si trovasse in una città del primo Novecento, guarito dalla follia ma pur sempre sognatore e vagabondo, con un’inalterata smania di mettersi al servizio del prossimo, forse ragionerebbe fra sé come lo scrivano Simon Tanner: “L’edificio di una banca è proprio una cosa stupida, in primavera. Che effetto farebbe un istituto bancario in mezzo a un rigoglioso prato verde? Forse la mia penna mi sembrerebbe un piccolo fiore appena spuntato dalla terra [...] Le nuvole bianche passano nel cielo, e io devo stare qui a scrivere. Perché guardo le nuvole? Se fossi un calzolaio, almeno farei le scarpe per bambini e uomini e donne, e loro in una giornata di primavera andrebbero a passeggio per la strada con le mie scarpe. Io sentirei la primavera se vedessi la scarpa fatta da me sul piede di un altro. Qui non posso sentirla, mi disturba”. In questo periodare giovanile tratto da I fratelli Tanner (1907) c’è tutto l’incanto della prosa tenera e lieve di Robert Walser, lo straordinario scrittore nato nel 1878 nella cittadina bilingue di Biel/Bienne, nel cantone di Berna, vissuto a Zurigo e Berlino, dove frequentò una scuola per domestici che gli ispirò l’arte cerimoniosa del servire che traspare nelle sue storie.

In tutta Europa si preparano omaggi per il cinquantesimo anniversario della sua morte, e per il centenario de I fratelli Tanner, suo primo vero romanzo. Il lettore interessato troverà ogni informazione sul sito dell’Archivio Walser a Zurigo (www.walser-archiv.ch), mentre a Roma la libreria Simon Tanner (www.simontanner.it) promette il 7 gennaio un appropriato omaggio: una passeggiata walseriana alla Caffarella. Il fatto è che Walser, il più disadattato degli scrittori contemporanei, è ormai riconosciuto come l’alfiere della libertà narrativa, che ha insegnato che tutto è esperienza e degno di essere raccontato, proprio come nell’arte della passeggiata, e che “discorso” e “percorso” appartengono a un comune, anarchico divagare (si pensi a La passeggiata o a I temi di Fritz Kocher). Si sa che per Robert Musil “Kafka fa l’effetto di un caso particolare del tipo Walser”, e che lo stesso Kafka guardò a Walser come un maestro. Elias Canetti lo leggeva così assiduamente da considerarlo “una sorta di droga”, e Walter Benjamin gli dedicò un saggio folgorante: i personaggi dei racconti di Walser, scrisse, sono dei “folli guariti” dalla cui bocca esce pura prosa, “pura e forte come l’aria della vita che guarisce”. Più recentemente, lo scrittore tedesco W. G. Sebald ha dedicato a Walser un riverente e commosso scritto intitolato Il passeggiatore solitario (Adelphi 2006), e anche in Italia non mancano gli appassionati, dall’editore Roberto Calasso (la sua Adelphi ha pubblicato quasi tutti i titoli disponibili) al filosofo Giorgio Agamben, al compianto scrittore Giorgio Messori, il più walseriano di tutti. Ma è di Gianni Celati il commento più lungimirante alla sua “passeggiata senza meta”. Lo “scandalo” di Walser”, ha scritto anni fa, è lo scandalo di “una scrittura che dichiaratamente non cattura nulla”, anzi “celebra affettuosamente tutto ciò che ci sfugge”, e proprio per questo “acquisterà un’importanza sempre maggiore quando tutto il campo della letteratura ufficiale sarà composta solo da prodotti fabbricati per il successo”. Cioè oggi.

Come gli scrittori da lui più amati, sui quali ripetutamente scrisse – Kleist, Lenz, Buchner – Walser fu un “anti-Goethe”, anomalo e ai margini. La sua scrittura, come la sua vita, fu precaria e priva di appartenenza, fino alla decisione del silenzio, e quella di abitare, cinquantenne, in un asilo psichiatrico a Herisau, da cui usciva la domenica per fare lunghe passeggiate, a volte in compagnia del devoto editore Carl Seelig. Se lo Zen fosse nato in Svizzera, o se nel cantone di Berna vi fossero stati dei monasteri buddhisti, forse Robert Walser ne sarebbe stato monaco, “in umore di santità”. Fu lì, durante una passeggiata, che il 25 dicembre 1956 Walser morì accasciandosi sulla neve. Una foto lo ritrae, il suo corpo sembra un segno di matita tracciato sulla neve.

Carl Seelig scoprì una quantità di fogli fittamente scritti a matita a caratteri microscopici. Pensando si trattasse di una scrittura folle e segreta, li nascose. Decifrarli fu il ventennale lavoro dei germanisti Bernhard Echte e Walter Morlang, che li hanno da poco stampati in 4 tomi di 4000 pagine. Questi mitici “microgrammi” furono redatti da Walser tra il 1924 e il 1933 dopo una crisi e una fortissima “avversione per la penna”: solo la matita gli restituì il gusto di scrivere, “in modo più sognante, più calmo, più lento, più contemplativo”. E fino alla fine attinse a quei “microgrammi”, ricopiandoli in modo leggibile, per i libri e gli articoli sui giornali. Una mostra debuttata in autunno a Ginevra presso la Fondazione Bodmer ha mostrato per la prima volta al pubblico, col titolo «Territorio della matita», molti di quei manoscritti. E se spesso Walser ha paragonato “i fogli bianchi delle pagine” a “fiocchi di neve”, la scenografia della mostra, a cura dell’architetto Mario Botta, gli dà ragione, facendoli galleggiare lievi come neve nella penombra, macchie bianche coperte da una grafia di illeggibile bellezza, un fascinoso coincidere di materialità e spiritualità.

Su uno di questi fogli, il «microgramma» n. 134, c’è una traccia di rossetto, ricoperto dalla poesia intitolata L’incompreso. Anche questa disperata gaiezza, o galanteria, è qualcosa di molto, molto walseriano.

Beppe Sebaste
Venerdì di Repubblica, 22 dicembre 2006


Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada. Sulle scale mi venne incontro una donna dall’aspetto di spagnola, di peruviana o di creola, che ostentava non so quale pallida e appassita maestà”.


Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Thelonius MonkWell You Needn’t [Thelonius Monk]
Thelonius MonkAbide With Me [Thelonius Monk]
Lazar BermanLa Chapelle De Guillaume Tell [Franz Liszt]
Charles TrénetBoum! [Charles Trénet]
Thelonius MonkJust A Gigolo [Brammer/Cæsar/Leonello Casucci]
Thelonius MonkNutty [Thelonius Monk]
Chet BakerI wish you love [Trénet/Chauliac]
Artur RubinsteinBolero, Op. 19, B 81 [Fryderyk Franciszek Chopin]
Thelonius MonkLet's Cool One [Thelonius Monk]
Lennie TristanoTurkish Mambo [Lennie Tristano]
Lazar BermanSonetto 47 Del Petrarca [Franz Liszt]
Thelonius MonkRuby My Dear [Thelonius Monk]
Charlie ParkerSmoke Gets In Your Eyes [Harbach/Karn]
Thelonius MonkAsk Me Now [Thelonius Monk]
Gerry Mulligan & Chet BakerMy Old Flame [Coslow, Johnson]
Jimmy GiuffrePropulsion [Jimmy Giuffre]
Thelonius MonkMisterioso [Thelonius Monk]
Lazar BermanLe Mal Du Pays [Franz Liszt]
Herbie HancockRain Dance [Herbie Hancock]
Arturo Benedetti MichelangeliSonata #5 In C [Baldassare Galuppi]

 
 

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Una foto dello scrittore Robert Walser

 
 

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