Talib Kweli: "Trattano la vita dei neri come se non avesse valore"

Il rapper presto in Italia per un'unica data al Tpo di Bologna. Una sua recente intervista direttamente da Ferguson

4 Ottobre 2014

Il rapper Talib Kweli è senz'ombra di dubbio un personaggio di spicco della scena hip hop internazionale ed è considerato uno dei rapper più talentuosi in circolazione. Ma l'artista di Brooklyn si è sempre contraddistinto anche per il suo impegno politico e sociale che risalta soprattutto nei testi e nella sua vita artistica, recentemente si è rifiutato di suonare in Israele in solidarietà al popolo di Gaza e lo abbiamo visto nelle strade di Ferguson dopo l'omicidio di Micheal Brown, accanto alla comunità afro-americana.

Il 12 dicembre sarà al Tpo di Bologna per uno dei suoi rarissimi show in Italia. In questa occasione vi proponiamo la traduzione di questa interessante intervista realizzata in agosto a Ferguson da Democracy Now a Talib Kweli e all'attivista Rosa Clemente, dove entrambi portano la loro testimonianza e fanno alcune considerazioni su come si vive negli States di Obama.
Puoi leggere qui l'articolo originale su Democracy Now
* Traduzione a cura di Silvio Salvemini

"Mentre a Ferguson, Missouri continuano le proteste per l’omicidio di Michael Brown, ci rivolgiamo a due voci ben conosciute che sono venute a Ferguson per mostrare la loro solidarietà.

Talib Kweli è un artista Hip Hop rinomato in tutto il mondo ed attivista e viene da New York. È presto esploso come una delle due metà del duo “Black Star”, assieme al rapper ed attore Mos Def. Black Star ha aiutato a definire un movimento hip hop underground e cosciente, riemerso nei tardi anni 90. Da allora ha rilasciato molti album acclamati dalla critica e ha usato la sua piattaforma per sostenere cause politiche, come quelle contro la brutalità della polizia e il complesso dell’industria carceraria.
Kweli è arrivato a Ferguson con Rosa Clemente, da lungo tempo attivista, giornalista, studiosa ed ex direttrice di Hip-Hop Caucus. Nel 2008 Clemente è entrata nella storia come parte del primo ticket presidenziale formato unicamente da donne di colore nella storia degli Stati Uniti, candidandosi alla vice presidenza con il Green Party assieme alla ex democratica Cynthia McKinney, in corsa per la presidenza.

Kweli e Clemente si sono uniti alla protesta a Ferguson appena prima che venisse organizzata per sabato una marcia moltitudinaria nella loro città, New York. Ci si aspettano migliaia di persone a Staten Island per chiedere giustizia per il caso di Eric Garner, l’afroamericano strozzato a morte da un poliziotto il mese scorso.

Il produttore di Democracy Now! Aaron Maté ha incontrato Kweli e Clemente questa settimana nella Greater St. Mark Family Church di Ferguson. La chiesa è stata usata come punto d’incontro e rifugio sicuro per i manifestanti colpiti dai lacrimogeni.

AARON MATE’: Talib, Rosa, benvenuti a Democracy Now! Talib Kweli, parlaci del motivo per cui sei venuto a Ferguson

TALIB KWELI: Sono a Ferguson perché rispetto la vita. Cerco di essere una persona compassionevole. Rispetto il semplice diritto delle persone ad esistere. E anche se ci sono discrepanze e incomprensioni riguardo la legge, rispetto il diritto delle persone ad un giusto processo. E a questo ragazzo, Michael Brown, è stato strappato via tutto questo in un istante. E il fatto che potrebbe essere stato mio figlio, il fatto che avrei potuto esserci io al posto suo, il fatto che io mi identifico in lui in tanti livelli, essendo nero e avendo vissuto le mie esperienze in America, mi ha veramente toccato in una maniera che le storielle dei media non hanno saputo rendere.

Ho visto molte celebrità che avrebbero potuto veramente usare la loro voce per far capire alla gente la giustezza della rabbia che si sta sprigionando qui, diventare molto critiche su alcuni degli altri aspetti di quelli definiti “saccheggiatori”, o critiche riguardo Al Sharpton e Jesse Jackson. Ma questa è gente che non ha mai parlato per conto del popolo. Ed il fatto che dicessero “usi veramente la tua piattaforma per fare critica?” mi ha reso desideroso di metterci la faccia per illuminare il vero movimento di protesta che si sta sprigionando.

Un sacco di gente pensa questo perché sceglie di ignorare le proteste ogni giorno, sceglie di ignorare l’ingiustizia ogni giorno, sceglie di ignorare che il mondo si comporta ancora in questa maniera. E quindi fanno domande del tipo “Bene, perché non ci sono proteste quando un nero spara ad un altro nero?” oppure “che mi dici dei crimini commessi dai neri su altri neri?”. E così fanno queste sciocche e inutili domande che distraggono completamente da quello che è successo a John Crawford, Eric Garner, Renisha McBride e Mike Brown. E quindi sai, è un campo talmente malato che ho sentito di dover andare oltre, molto oltre i retweet a questo punto.

AARON MATE’: Talib, questa protesta a Ferguson sta avendo attenzioni da tutto il mondo. Ma cosa possiamo imparare in particolare come nazione da quello che sta accadendo qui?

TALIB KWELI: Possiamo imparare che non dovremmo rinunciare ai nostri diritti così velocemente. Sai, la paura che quello che chiamano terrorismo ha instillato nel Paese, quella paura è stata usata per convincerci a rinunciare volontariamente ai nostri diritti. Abbiamo discusso per tanto tempo in astratto della militarizzazione delle forze di polizia e dei suoi effetti collaterali, delle sue ramificazioni e di quello che vuol dire per i diritti dei cittadini. E a Ferguson è la prima volta che si ha veramente l’opportunità di mostrare i muscoli a riguardo.

Mi sta veramente colpendo come la gente stia rispondendo a tutto questo con il coltello in bocca, come se fossimo tipo davanti al Bundy Ranch, cioè la gente sta veramente blaterando su come alla fine i manifestanti finiranno per usare le donne come scudi umani, metteranno le donne i prima fila perché sanno che se spareranno alle donne avranno delle immagini da poter usare per la comunicazione nel mondo. O su come starebbero puntando pistole in faccia ai federali mentre i federali dicono loro “Hey tranquilli, qui ci pensiamo noi”. Mentre, sai, qui invece abbiamo qualcuno che lancia una bottiglia d’acqua o che urla verso la polizia perché è giustamente incazzato, e questo diventa una scusa per brutalizzare e terrorizzare una intera comunità.

Voglio dire, io stesso, parlo per mia personale esperienza, ero lì fuori l’altra notte. Non stavo cantando cori né parlando con nessun poliziotto. Non stavo gridando contro nessuno. Non stavo tipo agitando un coltello. Non stavo neanche camminando in mezzo alla strada. I poliziotti mi hanno dato ogni genere di istruzioni. Ho seguito ognuna di esse. E sono finito comunque a terra con una pistola puntata alla testa.

ROSA CLEMENTE: Appena mi sono allontanata da loro, ho visto la polizia mettersi in formazione e pronta a partire. Come ha detto Talib, questo è stato prima che venisse lanciata quella bottiglia d’acqua. Appena li ho visti mettersi in formazione mi sono detta “cazzo, gli sbirri stanno per caricarci”. E quindi abbiamo tipo cominciato a ad andare via. Poi viene lanciata quella bottiglia d’acqua. C’è stato un momento di calma e silenzio, e poi gli sbirri sono come spuntati dal nulla.

Io Talib e Jessica ci siamo stretti forte le mani. Siamo arrivati ad un punto dove c’era tipo una barricata di cemento, e allora abbiamo pensato, beh dai, non mettiamoci a correre in mezzo alla strada. Gli sbirri stanno venendo in questa direzione, restiamo sul marciapiede e continuiamo a camminare tranquilli. Beh, veniamo immediatamente circondati, e dove eravamo circondati c’era un cespuglio. E poi subito “mettete le mani in alto! State a terra! Vi spariamo! Mani in alto! A terra! Vi spariamo!” Abbiamo assolutamente seguito gli ordini. C’erano circa… ora conto una dozzina di persone con noi da una o dall’altra parte della barricata.

E poi c’era questo ragazzo della comunità steso ai miei piedi, e si stava ssoffocando, stava respirando con difficoltà, respirava male. E lo sbirro è andato da lui e gli ha detto tipo “Smettila di muoverti o ti sparo!”. Ed io stavo dicendo al ragazzo, si chiama Devin, gli ho detto “Tesoro, cerca solo di rimanere fermo. Cerca di rimanere fermo”. E lo fece.

Sai, e ti devo dire, che per quanto io abbia fatto questo mestiere per 20 anni è stato il momento più terrificante della mia vita. Tutto quello a cui riuscivo a pensare era cosa succede se uno di questi sbirri, anche uno solo, spara? Significa che spareranno tutti. E se ammazzano questo ragazzo davanti a noi? E se non ci fosse stato questo sbirro nero, e di certo non provo alcuna simpatia per gli sbirri, se questo sbirro nero non avesse detto “Mettete giù le armi, abbiamo quello che volevamo, lasciateli andare”, saremmo stati sicuramente arrestati. Pensavamo sarebbe successo comunque. Quel tipo avrebbe potuto avere il grilletto facile. Ho visto lo sguardo che aveva. Stava aspettando di sparare a quel ragazzo.

AARON MATE’: Talib, tu sei di New York. C’è una grande manifestazione questo week end per la morte di Eric Garner, ucciso da una stretta al collo di un poliziotto. Puoi fare delle connessioni fra quello che sta succedendo nella tua città e quello che sta succedendo a Ferguson?

TALIB KWELI: Si, beh, sai, New York ha una lunga e comprovata storia di brutalità poliziesca, come in ogni comunità di colore. E sai che non è solo New York. Questa connessione fra tutta questa gente disarmata ammazzata dalla polizia è quello che rende la rabbia giusta. Come si permette la gente di aprire la bocca per criticare i manifestanti per dire roba tipo “oh beh, però non dovrebbero mettersi a saccheggiare”?

Con tutto il rispetto, sai, smettetela con ste cazzate. Ma di cosa state parlando? Il problema qui è la violazione dei nostri diritti che sta avvenendo, mentre il fatto di qualche saccheggio impallidisce difronte alla violazione dei nostri diritti. Perché siete incazzati per la reazione a tutto questo? Il fatto è che queste cose sono tutte connesse.

Il fatto è che questo ci riporta a Trayvon Martin, ci riporta indietro a robe successe a New York come quelle di Amadou Diallo e Patrick Dorismond, ci porta indietro a Tawana Brawley e Michael Steward, ci riporta ai 21 di New York (il 7 aprile 1970, ventuno militanti delle pantere nere furono arrestati senza nessuna prova per cospirazione ai fini di omicidio di vari membri delle forze dell’ordine e posizionamento di bombe in edifici pubblici, fatti comunque mai avvenuti. N.d.T.). Tutti questi fatti sono connessi. Se non riconosci la connessione, beh è questo che fa dire alla gente che la rabbia non è giustificabile, quando guardano ai fatti come se accadessero in un vuoto temporale, come se fossero incidenti isolati non connessi fra loro. Questo è il contesto che mostra come, sai, come Mos disse nel nostro primo album, “la vita dei neri viene trattata come se avesse pochissimo valore”.

AARON MATE’: Talib, prima hai detto qualcosa riguardo le limitazioni di Twitter e dei social media. Puoi parlarcene di più?

TALIB KWELI: Ho avuto un sacco di critiche per questo da gente più giovane, le nuove generazioni, che si avvolgono attorno ai loro social media come fossero calde coperte. Sai, supportare le cause su twitter li fa sentire tutti caldi e morbidi dentro. E lo capisco. Mi metto nei loro panni perché mi sento anche io alla stessa maniera. Quando sono a casa o nella stanza di un hotel e mi sto godendo la mia vita privilegiata e posso mostrare supporto ad una causa con un semplice tweet, beh mi fa sentire caldo e morbido dentro. Mi sento veramente bene quando posso farlo. Quindi capisco quanto fa sentire bene twitter. Capisco che non avrei le informazioni che ricevo se non avessi twitter. Guarda, sono sempre su twitter. Lo amo io twitter. Sono tipo il re di twitter. Lo amo. Capisci?

Comunque io me lo ricordo un mondo senza internet. E mi ricordo bene il fegato che ci vuole per fare movimento per davvero. Qualcuno mi ha twittato dicendo “Beh, sai, una volta non avevano twitter ma avevano le lettere, ci si scambiava lettere, quindi...” E allora io gli ho detto “Si ma qui nessuno sta dicendo che scambiarsi lettere ha fatto partire una rivoluzione”. Non è una questione di recitare lettere, c’era Malcolm X lì. C’era Stokely Carmichael lì. Quando guardo alla Green Revolution, quando penso a quello che è successo in Egitto, quando penso a quello che è successo ad Occupy Wall St., sì, ok, va bene, i tweet hanno aiutato, hanno aiutato molto, ma senza quei corpi in mezzo alla strada, senza la gente presente veramente lì a metterci la faccia, non ci sarebbe stato veramente nulla da twittare.

Se twitter funzionasse davvero come pensano, Jospeh Kony sarebbe ormai rinchiuso in una cella da tempo. Capisci? Quello contro Kony è stato il movimento più twittato della storia, ma non c’era un vero movimento collegato a quei tweet! Non c’erano dei veri corpi nelle strade! Non c’erano carne e pelle coinvolti in tutti quei miliardi di tweet che per poco non rompevano internet in tutta quella roba di “Stop Kony”, sai? E quindi è stato un falso movimento. E quindi i tweet che non sono connessi ad azioni sono falsi. Si, possiamo twittare, non cambia il fatto che twittare ti fa sentire bene con te stesso. Benissimo, twitta di più, twitta più che puoi, ma cavolo non ti confondere e non pensare di star facendo qualcosa che non è.

ROSA CLEMENTE: Si, e voglio dire, io penso che una parte importante della costruzione di un movimento sia quella di cambiarne la narrazione. Non ci sono soltanto afroamericani che vengono ammazzati, certo, sproporzionatamente, lo sappiamo, ma ci sono anche donne terrorizzate dalla polizia, violentate dalla polizia, ammazzate da vigilantes. Cosa sta succedendo dalle parti del confine ai fratelli e alle sorelle Latinoamericani? Vogliamo parlare di uno spazio pesantemente militarizzato negli Stati Uniti, guardiamo a quanto è militarizzato il confine, ok? E poi possiamo guardare al resto della storia di New York city, di come hanno ammazzato Yusuf Hawkins, di come hanno strozzato Anthony Baez. Così come hanno ucciso un migrante africano, Amadou Diallo, sai ci sono tanti altri casi come questo.

E sai, la cosa più importante ora è come ci stiamo rapportando col sistema di supremazia bianca? Come ci stiamo rapportando con un sistema che ci vede come inumani, neri o marroni, uomini o donne, bambini o ottantacinquenni che siano? Ma in particolare, in che modo stiamo capendo questo attacco sistematico a noi come persone? Se cominciamo a guardare seriamente all’intersezione di violenze, beh non c’è alcun dubbio che si possa creare un vero movimento su quello che sta accadendo.

Ora questi ragazzi a Ferguson stanno mostrando anche qualcosa di molto diverso all’interno di un movimento. E penso che una delle cose che sto vedendo che non mi piace è come si sta parlando dei ragazzi che non rientrano dentro la categoria di quella che chiamano “politica rispettabile”. Questa è la loro comunità. Sono articolati tanto quanto quella “politica rispettabile”. Possono anche parlarne in un linguaggio che piace agli accademici, ai giornalisti e quella roba lì. Ma questo è il loro ghetto.

Noi siamo appena arrivati da dove Michael Brown è stato steso ed ammazzato. E questi ragazzi ci stanno mostrando cicatrici di coltellate ricevute dalla polizia. “Oh, questo mi è successo quando avevo 10 anni, questo a 12. Oh poi uno sbirro m’ha fatto questo, e poi guarda qui che m’è successo. E hanno fatto sta roba a mia moglie, poi l’hanno afferrata e…

Le nostre comunità stanno venendo terrorizzate dalle forze dell’ordine. Come ha detto Talib, noi viviamo in quel mondo post 11 settembre dove non ci sono soltanto forze dell’ordine, adesso c’è un apparato di polizia militarizzato che sta letteralmente tentando di contenerci. Quindi ieri quando quel poliziotto ha detto a quel ragazzo in poche parole “smettila di respirare”, l’ha detto nella maniera in cui pensa che qualunque cosa nera o marrone in questo Paese sia passabile di esecuzione in ogni momento.

AARON MATE’: Rosa, tu hai moltissima esperienza con le lotte e con gli attivisti, quali sono le tue impressioni su quello che stiamo vedendo qui a Ferguson, sia riguardo gli ostacoli che i manifestanti stanno affrontando, sia riguardo al modo in cui stanno rispondendo?

ROSA CLEMENTE: Beh, penso che qualcuno possa non condividere le mie critiche hardcore su quello che a Black Agenda Report Glen Ford e Bruce Dixon hanno detto, che quando succedono cose del genere, per la maggior parte l’energia gravita attorno a quegli uno o due leader maschi che vengono ritenuti adatti a guidare la gente. Ora quello che vediamo a Ferguson è che i giovani stanno rifiutando tutto questo. Non vedevamo una cosa del genere da tempo.

Tipo “Ok, Jesse (Jackson N.d.T.), ti rispettiamo, ma non ti stiamo ascoltando”. Oppure “Al Sharpton, ok rispettiamo gente come voi, ma non stiamo proprio cercando di ascoltarti”. E quando guardo a tutto questo, devo anche vederlo nel suo contesto. Gente della “working class”, l’élite borghese, faranno mica ora da tappo a quello che vogliamo, libertà e rivoluzione? Voglio dire, possiamo vederlo chiaramente col presidente, no? E possiamo vederlo abbastanza chiaramente in tutta la nazione.

Abbiamo una grande abbondanza di ufficiali eletti afroamericani o latini. E non mi pare che la situazione sia cambiata molto da quando prima del 1964 non c’era praticamente nessun ufficiale eletto nero o latino. Io penso che Ferguson, come Occupy Wall St. ha cambiato la narrazione di come vediamo il capitalismo, beh penso che Ferguson cambierà la narrazione di come debba essere percepito un movimento contro la brutalità poliziesca, e cambierà anche la composizione di chi alla fine guiderà questo movimento.

AARON MATE’: E Talib, tu sei un artista Hip-Hop molto famoso, ci puoi parlare delle risposte e delle responsabilità degli artisti in tempi come questi?

TALIB KWELI: Beh, sai, io personalmente penso che gli artisti abbiano delle responsabilità nei confronti delle comunità che supportano le loro carriere. Però sai, non puoi incolpare un bambino per qualcosa che non sa. E molti artisti non hanno l’educazione politica necessaria per sapere quando farsi avanti. E quindi beh, è abbastanza normale incazzarsi per questo. Ho visto artisti che conosco e rispetto, come T.I., Tyrese, che parlano dei veri problemi che la nostra comunità sta affrontando. Ma per me è tutta una questione di tempismo, capisci che voglio dire?

Ora, con tutto il rispetto per T.I. o Tyrese, quelli sono artisti che… cavolo lo so che parlano. Seguo questi artisti su twitter, li seguo. Quella non è gente che sta zitta. Parlano della nostra comunità, che ne parli la stampa nazionale o meno. Ma parlare, sai, focalizzarsi sui saccheggi e sulle reazioni, a mio parere, deflette e distrae da quello su cui noi come comunità dovremmo focalizzarci. Quello è il linguaggio del nostro oppressore. L’oppressore non vuole che noi pensiamo alle orribili circostanze, quindi l’oppressore vuole che ci focalizziamo su roba tipo “Beh, guardate adesso come vi state comportando” capisci che voglio dire? E se cominciamo ad usare il linguaggio dell’oppressore non abbiamo alcuna possibilità di ricevere qualche parvenza di giustizia per Mike Brown.

Beh, guarda, già non c’è alcun tipo di giustizia per la sua famiglia. Beh, diciamo che lo sbirro viene arrestato e condannato a morte. Questo ci riporterà indietro Mike Brown? No, non lo farà. Quindi la famiglia non avrà mai giustizia. Quindi dovremmo essere soddisfatti nell’aspettare un verdetto di un sistema che è chiaramente compattato contro di noi. Sai, questo è quello di cui dovremmo parlare come comunità. Non dovremmo parlare ogni volta dei saccheggi quando li vediamo. È esattamente quanto Malcolm X diceva riguardo lavare i propri panni sporchi in pubblico. Possiamo parlarne fra di noi, ma quando ne parliamo alla stampa, facciamo interviste, scriviamo su twitter, dobbiamo sottolineare la grandezza di gente come i Dream Defensers, dobbiamo anche parlare di certa parte del clero, dobbiamo anche parlare di quanti sono organizzati nel protestare pacificamente prima di criticare gente che è lì fuori a protestare con giusta rabbia e ira. Quindi sai, ne ho twittato e ne ho parlato a riguardo, e ho sfidato gli altri artisti e le altre persone a focalizzarsi su di questo. E non lo posso dire da un posto lontano o astratto. Ci devo mettere la faccia qui fuori per far sì che la gente mi ascolti davvero e ne parli davvero. E devo essere in grado di parlarne per esperienza personale, altrimenti posso essere considerato altrettanto colpevole.

AARON MATE’: E finalmente Talib, mentre giungiamo alla conclusione e ci apprestiamo a tornare per le strade per un'altra notte di proteste, quali sono i tuoi pensieri conclusivi?

TALIB KWELI: Beh, è difficile per me quantificare, perché sono qui solo da pochi giorni. Non devo esserci per forza io qui. Molta gente deve rimanere qui. Ero molto esitante nel fare interviste. Sai, mi piace quello che fa Democracy Now! quindi sono qui volentieri, e ho fatto un’altra intervista per un altro network, ma non voglio che tutto questo finisca per riguardare solo me. Non sono qui per fare spettacolo. Non sono qui come rapper o come celebrità. Sono qui come membro della mia comunità. Sono qui per essere leader e per essere seguace, per trovare tanti leader nella comunità e chiedere loro in cosa posso essere utile. E credo che è quanto di meglio si possa fare come persone che non vivono qui, che non sono costrette ad affrontare tutto questo.

Ma siamo anche costretti ad affrontare tutto questo perché siamo costretti ad affrontare le ramificazioni onnicomprensive del significato che tutto questo ha. Ma c’è gente in questa comunità che, per quanto grandi o positive siano le cose che diciamo in questa intervista, non verrà aiutata ad un livello reale da queste cose che diciamo una volta che ce ne saremo andati. Quindi sto solo cercando di fare delle cose che avranno un impatto anche dopo che questo momento qui sarà passato.

AARON MATE’: E Rosa Clemente?

ROSA CLEMENTE: Beh, i miei pensieri finali sono… ricordiamoci che un ragazzo di 18 anni, a due giorni dall’inizio del college, è stato inseguito, gli hanno sparato, gli è stato ficcato un proiettile in testa, ha ricevuto una esecuzione, è stato lasciato lì per quattro ore, è stata traumatizzata un’intera comunità, è questo quello su cui dovremmo focalizzarci ora. Ma il quadro più grande è che se non ci sarà un rinvio a giudizio, se non ci sarà giustizia dal sistema dell’ingiustizia, questo non vuol dire che non lotteremo ogni giorno per fermare tutto questo. E sai, come disse una volta Pete Seeger, fare piccole cose ogni giorno, quante più ne puoi.

Sai, come madre, fin quando non ho visto il posto in cui Mike è rimasto disteso morto per quattro ore, beh il tutto non mi ha veramente colpito fin quando non ho visto quel posto. Sono disgustata e stanca di tutto questo. Come Fannie Lou Hamer, sono disgustata e stanca di tutto questo. Abbiamo così tanta vita da vivere e così poco tempo per viverla. E ogni giorno, ogni giorno che mia figlia diventa sempre più grande, o chiunque dei miei amici, tutto quello che riesco a pensare è, questo mondo è meglio di quello di ieri? Perché no, non lo è. E cosa succederà ai nostri figli? Cosa succederà alla gente della nostra comunità? Come questo influenza i bianchi antirazzisti che stanno combattendo contro il razzismo? Dobbiamo sempre ricordarcene.

E dobbiamo anche ricordarci sempre che quello che sta succedendo a Ferguson è diventato più grande della morte di Michael Brown e del dolore della sua famiglia. Questo non vuol dire che non lo rispettiamo e che non ci uniamo al loro dolore. Vuol dire, ancora una volta, che questo può essere l’impulso, ovunque succederà la prossima Ferguson, affinché una prossima Ferguson non accada mai più.

 
 

Tratto da:
www.globalproject.info

Links utili:
Canale YouTube di Talib Kweli
Talib Kweli su FB
rosaclemente.net
Rosa Clemente su FB

 
 

    video

  • Talib Kweli Featuring Res "Whats real" (Official music video)
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