Sufjan Stevens – Carrie & Lowell

by Aria (Vinylistics)

3 Aprile 2015

Nella giornata degli scherzi per antonomasia, noi facciamo gli alternativi e ci prendiamo sul serio più del solito. No davvero, niente scherzi, Aprile è appena arrivato e dato che, lo sanno tutti, è scortese presentarsi a mani vuote, ci porta fin da subito uno dei dischi più belli usciti fino ad ora quest’anno: Carrie & Lowell di Sufjan Stevens.

La dolcezza e la delicatezza con cui questo disco entra, in punta di piedi, nella nostra vita non sono altro che l’eco di sussurri pronti a rivelare i molteplici stati d’animo e le molteplici sensazioni che accompagnano la primavera fragile di Stevens.

Bisogna avere una quadro d’insieme piuttosto completo per accingersi a gustare la bellezza di questo disco e capirlo appieno. Questo vale sia per il percorso musicale che per quello personale, di vita, del cantautore americano che alla soglia dei quarant’anni compone la sua opera più intima e personale.

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Pubblicato ufficialmente il 31 marzo scorso, praticamente ieri, Carrie & Lowell ha come titolo i nomi della madre e del padrino di Stevens. Si capisce fin da subito, quindi, che questo disco sia legato alla vita del musicista ma lo è in particolar modo all’avvenimento più triste della sua vita, la morte proprio di sua madre, accaduta nel dicembre del 2012. Nonostante la donna non sia mai stata la candidata ideale per il premio Mammadell’anno  a causa dei suoi problemi con l’alcool e con se stessa che l’hanno portata ad abbandonare il figlio in tenera età, il lutto è stato per il nostro Sufjan devastante. E questo disco è stato in qualche modo proprio un modo per reagire, per elaborare il lutto e l’accettazione della morte in generale. Ma non solo. Questo disco è una vera e propria riflessione sulla vita e sul suo ciclo che inevitabilmente si compie e che l’uomo può solamente imparare ad accettare affrontando delle fasi. Una robetta piuttosto leggera.

Ma quando si perde una persona cara è così. Si deve combattere il dolore, il vuoto, la mancanza. Bisogna riuscire a trovare un motivo per volerlo fare e spesso ci si rifugia nella fede, per chi ce l’ha. Invece per chi come la sottoscritta non ne è munito, la questione si fa un attimino più complicata. Il discorso vale per lo stesso Stevens che pur di riuscire a trovarla in qualcosa, compie un viaggio introspettivo e a ritroso nella propria vita, scavando tra i suoi ricordi di infanzia (gli unici che lo vedono insieme a sua madre) e riportando alla luce pezzi di essa che possano aiutarlo a trovare un po’ di conforto e a raggiungere cosi uno stato di serenità.

Proprio per questo motivo, musicalmente parlando, ci troviamo di fronte a un disco intimo ed essenziale dove tutto ruota intorno a chitarre acustiche, qualche tastiera e cori eterei che trasmettono per tutta la durata dell’opera un senso di pace e di tranquillità che per niente farebbero pensare a qualcuno che affronta il dolore di una perdita. E infatti sembra di essere proprio lì, seduti su un masso in campagna, ad ascoltare qualcuno che ti sta proprio insegnando a trovare speranza, ad avere sempre un motivo per lottare e a guardare in alto con fiducia e con la consapevolezza di chi sa che la vita non fa altro che compiere il suo percorso naturale. Questo è proprio il messaggio chiave del brano iniziale, Death With Dignity, dove appunto dice che muore con dignità solo chi diventa consapevole dell’arrivo, prima o poi, di una fine sicura, apprezzando cosi appieno il vero valore della propria esistenza. In Should Have Known Better, uno dei migliori pezzi dell’album (e anche uno di quelli con un ritmo più consistente), Sufjan combatte i demoni del suo passato, si sente schiacciato dal peso dei rimpianti di un legame vissuto troppo poco e troppo brevemente e solo nella seconda metà del brano riuscirà a venirne fuori con un flusso sonoro in grado di riportare la luce anche nella penombra della vostra stanza.

 

 

E’ un continuo susseguirsi di domande, di pensieri irrazionali che in qualche modo vorrebbero essere risolti e cosi ogni canzone, a mo’ di parabola, cerca di dare senso a qualcosa, di trovare una risposta ad ogni cosa. Così lo stato d’animo di Stevens cambia e si trasforma continuamente passando dall’inquietudine alla serenità da un momento all’altro.

In All Of Me Wants All Of You, si respirano atmosfere alla Bon Iver, con cori sussurrati accompagnati da arpeggi leggiadri. Cosi come in Drawn To The Blood, arricchita però da qualche elemento elettronico che porta a sfumare il tutto in un’atmosfera più inquieta. Ritrovare poi quel senso di pace interiore con Eugene e la sua dolcezza ricreata da un duetto fatto di chitarra e un cantato delicatissimo. Ma l’essenza di questo disco è racchiusa tutta nei testi, undici perle ricche di metafore e di significati profondi. In 4th Of July, il cantautore non attinge dalla memoria dei suoi ricordi, bensì inventa un dialogo, un toccante botta e risposta tra lui e la madre mai avvenuto nella realtà ma che in qualche modo lo consola. Così come la certezza che We’re all gonna die, ripetuto più di una volta nella canzone. Di rilievo anche la bellissima No Shade in the Shadow of the Cross in cui c’è un toccante momento di sincerità e disperazione per non riuscire a trovare poi tutta questa fede e speranza decantate. Durante tutto il disco dovrà lottare e impegnarsi per riuscire a vedere di nuovo la luce sulla sua strada. Alla fine ce la farà. La mia preferita è però John My Beloved che spezza l’intimità degli arpeggi con pulsazioni sonore astratte e un piano che con poche note porta molto, molto lontano da qui.

Non è facile intraprendere un percorso come questo. Non è facile metabolizzare il dolore, non è facile affrontarlo e per chi è al di fuori non è altrettanto facile capirlo. Ma se c’è una cosa che Sufjan Stevens ha reso davvero semplice con questo disco è la capacità di permettere alle piccole cose di toccarci e di fargli cambiare inaspettatamente il senso di tutto.

 
 

vinylistics.altervista.org

 
 

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  • Sufjan Stevens, "Should Have Known Better"
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