Villagers - Darling Arithmetic

by Aria (Vinylistics)

21 Aprile 2015

Devo essere sincera, il primo ascolto di questo disco mi ha lasciata un attimo spiazzata. Positivamente? Negativamente? In un primo momento non ho avuto ben chiaro cosa rispondermi. Così sono tornata indietro, sono riandata avanti. Ho riavvolto il nastro del percorso di questa band, soprattutto del suo frontman, più volte. E nonostante ciò non riuscivo a capacitarmi delle tempistiche, del cambio di direzione che riporta alle origini, di ciò che aveva potuto spingere il cantautore dublinese ad aprirsi cosi. Ero prossima a raccontare tutto al mio analista e a provare a fare un po’ di chiarezza insieme a lui. Poi però mi sono ricordata di non avere un analista.

Se non si fosse ancora capito, sto parlando del terzo album dei Villagers, band dell’irlandese Conor O’Brien. Un disco che aspettavo da un po’ e che ho insistito tanto per recensire proprio per la curiosità di vedere come la band avrebbe portato avanti la propria musica, magari fondendo le diverse caratteristiche dei due album precedenti e sfornando un lavoro che comprendesse un po’ di tutto: la sensibilità di una scrittura personale come nell’album di debutto Becoming A Jackal (2010) che abbracciasse un po’ delle sonorità elettriche del penultimo {Awayland} (2013). Insomma, ero piuttosto sicura che avrei parlato di una bomba di disco. L’avevo puntato. Darling Arithmetic prende però una piega decisamente diversa dalle mie aspettative, spogliandosi di tutte quelle sfumature sonore sperimentate in {Awayland} e tornando a un sound più intimo ed essenziale come ai tempi d’origine.

 Villagers-band-pic-2013

Scritto, registrato, prodotto e mixato interamente da Conor O’Brien nel loft di un casale rustico situato nella città di Malahide, a nord di Dublino, Darling Arithmetic trova la sua nascita e realizzazione in un ambiente isolato dal caos e dai frenetici ritmi urbani, creando una propria dimensione di pace e di silenzio, ideale per il cantautore che con la sola voce e l’utilizzo di altri pochi strumenti ha compiuto un vero e proprio percorso alla ricerca di se stesso mettendo a fuoco la sua vera identità di songwriter intimamente folk. Ma quanto ci piace questa cosa? Quanto lo subiamo il fascino di un artista confuso, alla ricerca di se stesso, che riesce a venirne fuori grazie a perle di dischi acustici, intimi e sentitissimi? Tanto, troppo. Tanto che al giorno d’oggi rischia di diventare un cliché attraverso il quale ogni artista vuole per forza passare. Il fatto è che difficilmente la nascita di qualcosa di bello e sincero abbia gli stessi tempi dell’intenzione stessa di volerlo fare. Difficilmente coincidono. Ci vuole una dose di aspro che la vita puntualmente ti dà, ci vuole quella punta di dolce che alla fine riesci a sentire sulla punta della lingua quando hai capito la lezione. Ci si deve perdere, ci si deve ritrovare. Ci vuole un po’ di maturità, ci vuole tempo, ci vuole pazienza. Tutti questi pensieri mi hanno portata a pensare che per il percorso artistico di Conor fosse tutto troppo accelerato. Oltre al fatto che forse avrei davvero bisogno di un analista.

Ma lo dico subito, mi sono ricreduta dopo poco.

 

 

Sono nove le canzoni di questo disco. Non sono tante ma inglobano nel loro insieme tutte le sfumature della natura umana e dei suoi sentimenti, toccando fin dal primo pezzo i punti più caldi e personali dell’anima del cantautore.

“C’è voluto un po’ di tempo per arrivare dove volevo … C’è voluto un po’ di tempo per essere me stesso” dice in Courage, proprio il pezzo che apre il disco, dove Conor si racconta apertamente, con toni calmi, bassi, di voce e chitarra in una melodia dolceamara che alla fine fa sentire proprio quella punta di dolce sulla lingua di cui parlavo prima. C’è davvero di tutto in questo disco: coraggio, sincerità, passione, amore.. ma anche quel lato un po’ più oscuro fatto di malinconia, ipocrisia, ossessività, inquietudine. Le dolci note del pianoforte di Everything I Am Is Yours alzano leggermente i toni spaziando in sonorità folk che tanto stanno bene addosso a O’Brien e al suo timbro vocale, parlando dei demoni che il cantautore lascia sulla porta. Lo ritroviamo malinconico nella title-track dove veste i panni di un amante defunto sdraiato su quello che era il letto che condivideva con il suo amore, a sognare. La forte intimità che si sente sulle note e nella lirica di Hot Scary Summer la rende una delle canzoni più belle insieme a No One To Blame e Little Bigot che con la sua chitarra spagnoleggiante ricrea l’atmosfera più seducente dell’album.

Questo disco racconta con semplicità ed equilibrio, nel suono e nei toni, l’essenza di qualcuno che fa qualche passo indietro e qualche passo avanti, provando e attraversando, inevitabilmente, ogni sentimento possibile sul proprio cammino, ricordandomi una cosa fondamentale: i percorsi umani non sono mai lineari, non conoscono tempistiche precise e razionalità. Soprattutto non esiste il “modo giusto” di percorrerli. Esiste solo il proprio modo personale. Questo può perfettamente valere anche per i percorsi artistici, E in questo caso Conor O’Brien non fa altro che parlare a cuore aperto del proprio, con un album che non è sicuramente uno dei dischi più incisivi e sorprendenti dell’anno, ma che tocca le corde giuste per arrivare all’anima di chi lo ascolta.

 
 

Vinylistics

 
 
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