Suuns – Hold/Still

by MonkeyBoy (Vinylistics)

21 Aprile 2016

Ormai il Canada è una superpotenza musicale a tutti gli effetti. Non starò qui a citare gli innumerevoli gruppi che negli ultimi anni sono usciti dalla terra dei taglialegna – e da Montréal in particolare – ma fra le tante compagini ‘orchestrali’ i Suuns rappresentano un’eccezione grande così. Ben Shemie (voce, chitarra),  Joe Yarmush (chitarra, basso), Liam O’Neill (batteria) e Max Henry (basso, tastiere) arrivano alla terza prova in nove anni, dopo che Zero Qc e soprattutto Images Du Futur sono stati incensati da pubblico e critica.

Hold/Still (sempre via Secretly Canadian) vede la band stringersi attorno al nuovo producer John Congleton (vincitore di un Grammy e già al lavoro con St. Vincent, War On Drugs e Sleater-Kinney), che porta tutti nel suo studio di Dallas per tre intensissime settimane di registrazioni. In Texas trovano la concentrazione e l’isolamento che Montréal non può più offrire loro e vi riversano l’esperienza di tre anni passati fra tour e collaborazioni più o meno riuscite, come quella conJerusalem In My Heart del 2015.

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I riferimenti di genere rimangono grosso modo gli stessi, con post-rock e neo-psichedelia come coordinate principali. Quello che appare evidente è che, in generale, la componente elettronica è cresciuta di album in album e qui è importante come non mai, sia come attitudine che come vero e proprio elemento del sound. Hold/Still è, per stessa ammissione dei Suuns, diviso musicalmente e filosoficamente in due parti ben distinte. La prima è quella più estroversa, noisy, basata su chitarra e batteria, col digitale a fare da contorno.

A rendere concreta l’idea è fin da subito l’intro pesante e distorta di Fall, che muta naturalmente nella penetrante meccanicità di Instrument, dove il conflitto fra carne e spirito (“I wanna believe, I wanna receive”) si gioca appunto su un tappeto strumentale analogico e live finora inedito, almeno a questi livelli. In fase di promozione il gruppo ha sbandierato il fatto che non vi siano sovraincisioni ed Henry ha ribadito il concetto affermando che l’attrezzatura da lui utilizzata (tastiere e synth) sia per scelta in cattivo stato o comunque molto economica. Perché ciò che funziona bene poi fa il lavoro al posto tuo e non è divertente, no?! Quindi i sali-scendi della notevole UN-NO (che ricordano non poco 2020) e la sua batteria motorik hanno quel sapore da buona la seconda forse un po’ naif ma che riesce a dare un groove solido ed assai efficace al brano.

Se dovessi scegliere un colore dominante per questo LP opterei per delle sfumature di blu oltre mare talmente scuro da sfociare, per un osservatore confuso e disattento, nel nero. In effetti è forte il carattere enigmatico e misterioso di brani dalla pulsante acquosità come Resistance, così come è chiaro l’intento di ammantare con un velo notturno ed urbano la calma e rilassata Mortise And Ternon. Ma prima che queste atmosfere sfuggenti e dilatate riescano a fissarsi completamente nelle nostre teste ecco che Translate torna su di giri grazie ad un sapiente uso di sintetizzatori alla Moroder e droni di chitarre, in cui i primi fluiscono nei secondi come fosse la cosa più normale possibile. Qui va dato merito al lavoro di produzione di Congleton che ha preso una canzone rielaborata per anni dai cinque canadesi e le ha dato una forma compiuta ed avvincente.

Translate chiude una prima metà minimale ed industrial, dove accanto alle influenze più o meno evidenti che vanno da Throbbing Gristle a Death Grips a Clinic (per non menzionare lo scontato riferimento a Kid A) emerge un meticoloso lavoro di scrittura e di esecuzione, una precisione maniacale nel procedere per sottrazione in costante ossequio al mantra della ripetizione, tipico per una band come i Suuns, ma qui spogliato di tutto ciò che non sia strettamente necessario.

La seconda parte è quella introspettiva, in cui campeggiano temi più o meno personali quali sesso e spiritualità, senso di colpa e dislocazione. In un contesto maggiormente intimo e trascendente emergono i testi, ad esempio semplici e diretti come quelli di Brainwash (“Do you see, all seeing? Do you know, all knowing?”), pezzo à la Portishead in cui la dicotomia accordi delicati vs drum machine distorta fa sempre la sua gran figura. A parlare di amore cupo e sesso ci pensa la successiva (e lunga) Careful, tormentata ed insidiosa discesa nel lato oscuro dell’animo, dove synth palpitanti e minacciosi fanno da cornice ad una parte vocale inedita per Shemie, finalmente pronunciata ed in primo piano ancorché quasi recitata, di certo smarcata dalla consuetudine del falsetto Yorkeano.

A poco a poco cresce l’impressione di una tensione costante che volutamente non esplode mai. Un conflitto tra forze in opposizione, fra dinamicità e controllo, sublimato dall’ottima Paralyzer, che sui tormenti del desiderio (“I just want to touch you and hold you in my hands”) costruisce la sua intensità attraverso strutture tanto sperimentali quanto intricate, alternando gli stati d’animo, immobilizzandoci come fossimo bloccati in un infinito frame di un film di David Lynch.

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Nonostante la chiara volontà di non debordare mai nel mainstream, i Suuns di Hold/Still non si fanno mancare una digressione melodica verso qualcosa che potremmo definire blues elettronico. Nobody Can Save Me Now che sia o meno una prosecuzione di Music Won’t Save You ne è di certo parente nel pessimismo e nel fatalismo mal celato sia nella parte in cui è più classica/elettronica sia in quella in cui vola via tra architetture astratte e riverberi dall’aldilà. Potrebbe essere riduttivo ma intendendola come introduzione alla conclusiva Infinity acquisirebbe ancor più significato. Dove prima è dubbio e sconfitta, l’ora più buia, qui, nel breve e chilly commiato intessuto di elettronica ondulante, è invece rivelazione finale, è catarsi (“Now I see everything for what it is. Infinity. Revelation”)....continua su Vinylistics

 
 
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