Sunwatchers – Sunwatchers

by MonkeyBoy (Vinylistics)

29 Aprile 2016

Mentre mi accingevo a scrivere questo articolo mi sono chiesto come mai così tanta gente abbia paura del jazz. Ad alcuni già la sola parola provoca pruriti alle orecchie ed alzate di occhi. Lou Reed diceva che se una canzone ha più di tre accordi allora è jazz ma immaginate la vostra reazione quando un amico hipster (ce li abbiamo tutti, purtroppo) vi propone una serata in un “…localino carino di nicchia dove suonerà un trio jazz. E poi si beve solo vino bio!” Ok, forse così è troppo, ma avete capito il senso.

Il jazz può essere ostico, complicato, da vecchi, per alcuni addirittura roba da afroamericani, ché nulla abbiamo da spartire con quelli là. Fatto salvo che a molti possa proprio far cagare come genere musicale in sé, si sa che spesso proviamo paura per ciò che non conosciamo. Ci ho già provato con Matana Roberts, se non bastasse in giro c’è anche gente come Kamasi Washington, ma forse l’approccio giusto è quello di cominciare a trasmettere l’idea che il jazz possa essere una disposizione dell’animo prima ancora che tromba piano e contrabbasso. L’omonimo album d’esordio dei Sunwatchers è il mio estremo tentativo.

Dunque, chi sono i Sunwatchers? Di loro si sa che sono un gruppo strumentale e poco più. Jim McHugh suona chitarra e phin elettrico – una sorta di sitar thailandese – Peter Nye Kerlin è al basso, Jeff Tobias soffia come un matto nel suo sax contralto e Jason Robira picchia la batteria. A questo nucleo fondamentale si aggiungono di volta in volta ospiti a seconda delle necessità, tipo Cory Bracken (vibrafono e percussioni) e Dave Harrington (chitarra, sintetizzatore). Alcuni arrivano da progetti già esistenti come Dark Meat, Arthur Doyle’s New Quiet Screamers, NYMPH e Chris Forsyth’s Solar Motel Band. Si incontrano tutti a Brooklyn, New York City, e dato che nella città che non dorme mai nessuno dorme mai improvvisano una band(a) che unisce psych-rock, drone music e punk al tanto famigerato jazz.

Oltre a suonare nei club che contano rilasciano musica a partire dal 2014, quando pubblicano Tomb Howl, una cassetta live in edizione limitata di sole 100 copie contenente già alcuni brani che ritroviamo qui. L’anno successivo è la volta di Live Transmissions (due brani) e The Brown Dream v.1(unico brano da 13 minuti circa). Attirano le simpatie sempre tutte particolari di John Dwyer dei Thee Oh Sees che li mette sotto contratto per la sua Castle Face Records donando loro una connotazione indie senza impegno che male non fa mai. Poi capiscono che forse è ora di fare le cose serie, si chiudono in studio e ne riemergono con Sunwatchers, probabilmente uno dei debutti migliori che vi capiterà di ascoltare quest’anno.

Sono stati definiti una band difficile da inquadrare ed impossibile da afferrare. In parte è vero, mischiano un sacco di generi e sottogeneri, citando di continuo le loro innumerevoli fonti di ispirazione (tra cui ÉthiopiquesTerry RileyJohn Handy). Ma al di là della declinazione che prende ogni singolo brano, l’attitudine rimane sempre ed immancabilmente jazz. O psych-jazz come nell’iniziale Herd Of Creeps, pezzo assai sostenuto che parte da una manciata di elementi che definiscono il wall of sound – drone di phin, basso r’n’b, sax e batteria simil motorik – e ci costruisce su quasi sei minuti di magnificenza sonora, da James Brown al free jazz, con Jonah Rapino al violino ed una sensazione di assorbimento totale al sound.

Che a seguire ci sia la bluesy For Sonny non è un caso. Potrebbe sembrare solo la classica mossa da sboroni (ed in parte è così) che ti fanno vedere quanto sono bravi a cambiare registro in un amen, ma è una jam mid-tempo di un tale livello che conquista anche in virtù della sua arroganza. Qui la chitarra è assolutamente indistinguibile dal phin – entrambi sono torbidi sporchi e polverosi – mentre una batteria precisa e cadenzata regge una prova gigantesca di sax. Il tutto ammantato da un’aria di improvvisazione che nasconde invece tanto studio e programmazione, approccio che nemmeno vi sto a dire di che genere musicale sia tipico.

sunwatchers2015-08-23stpauls

Un po’ della selvaticità delle prime cose i Sunwathcers l’hanno conservata per White Woman, up-tempo punk-jazz furioso ed ipercinetico davvero irresistibile che, pur non placandosi mai, sul finale è addirittura straripante, senza freno come un animale che morde alla gola, sente il sapore del sangue e non la lascia più. Ma il vero fulcro compositivo è la centrale Eusebius, unico vero momento di free-jazz, ispirata tanto dall’omonimo pezzo del Carnaval di Robert Schumann quanto dal leggendario sassofonista Arthur Doyle, con cui alcuni membri della band hanno collaborato prima della scomparsa nel 2014.

Si tratta in parte di un riarrangiamento della sonata del compositore tedesco, in cui un sax in rubato ne cita il tema in un’introduzione che procede calma e pacata, quasi da club. Poi, dopo un breve accenno al tema di Florestan (ad Eusebio e Florestano Schumann si riferiva come ai due aspetti della sua personalità, il primo calmo il secondo impetuoso. Sì aveva problemi mentali proprio come Doyle) tutte le convenzioni formali vengono abbandonate per lasciare spazio a qualcosa a metà tra progessive ed improvvisazione, una struggente elegia piena di angoscia ed alienazione.

Per qualche motivo i Sunwatchers amano sottolineare il dualismo tra chitarra (phin)/sax e basso/batteria come fossero gli unici due fulcri del loro mondo musicale. Per riuscirvi si affidano molto spesso a strutture ripetitive, che ad esempio in Ape Phases diventano ossessive se portate all’estremo. Non una delle migliori, sicuramente una delle più lunghe, questa jam unisce – in tonalità sempre piuttosto alte – drone-jazz iniziale a schizofrenia d’avanguardia nella parte centrale, per ripiegare sul finale su un krautrock a ritmo elevato, in sostanza facendo di se stessa un drone che vive di momenti diversi ma forse un po’ troppo monocolori.

Parlando di quello che funziona meno (ma avercene), forse Moroner è il pezzo più debole dei sette – otto, se contiamo Noah Black Ark, bonus track dell’edizione flexi-disc. Si tratta di andare a fare proprio i cagacazzi, per carità, ma latita quell’originalità che contraddistingue il 90% del disco, a partire dal riff di chitarra che, non so quanto volutamente, cita i Cream di Cat’s Squirrel, per proseguire con un’elementare batteria marziale e tastiere effimere. In questo contesto svetta invece il meraviglioso e pazzo sassofono di Jeff Tobias che, sciolto da ogni imposizione o struttura, vaga libero e famelico in quello che è decisamente il brano più rock e forse per questo meno memorabile.

f1fc4dc7581286855a4c47de9c4fb93b-large

Moonchanges – di una bellezza clamorosa – è la giusta conclusione trippy, e non sarebbe potuto essere altrimenti...continua su Vinylistics

 
 
loading... loading...