PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project

by Aria (Vinylistics)

22 Maggio 2016

Ci sono dischi la cui musica parla da sola e dischi che invece vanno raccontati perché non sono semplici dischi ma vere e proprie opere concettuali che assumono significati importanti al di là della loro essenza artistica. Tutto ciò riguarda in prima persona anche la cara Polly Jean Harvey che con l’uscita del suo nono album, The Hope Six Demolition Project, consegna al mondo un lavoro molto particolare in cui racconta e cattura molteplici aspetti di alcune realtà attuali.

Che qualcosa fosse cambiato nei contenuti della musica della Harvey era evidente già nel precedente lavoro vincitore del Mercury Prize 2011. Perché sì, proprio Let England Shake ha dato inizio ad una nuova fase del suo percorso artistico canalizzando tutto il flusso interiore della cantautrice, da sempre alle prese con i propri tormenti personali, in momenti di riflessione su tematiche di interesse generale come le guerre e i conflitti politico-sociali. Con questo nuovo lavoro il discorso viene portato avanti e se nel suo predecessore la protagonista è la sua terra, l’Inghilterra, stavolta PJ ha varcato letteralmente i confini per fornire un punto di vista più ampio su questioni che interessano un’altra parte del mondo.

PJ Harvey

Diciamocelo chiaro e tondo, parlare di questo disco significa inevitabilmente arrivare a fine articolo spaccati in due categorie: quelli che lo odiano e quelli che lo amano. Quindi la miglior cosa è iniziare da un punto che mette tutti d’accordo: PJ Harvey è un’artista straordinaria che persino nei momenti meno convincenti della sua carriera ha saputo reinventarsi più volte sperimentando e circondandosi sempre delle persone giuste. Di lei proprio non si può non innamorarsi e se non si è innamorati probabilmente la si odia perché vie di mezzo con questa donna sono proprio difficili da trovare. Questo perché contenersi è un verbo che non ha mai conosciuto in 24 anni di musica, in cui nel bene e nel male, ogni album annunciava un’unica e sempre uguale premessa: o tutto o niente. Credo che questa sia proprio la parte fondamentale della sua figura imponente nel mondo della musica, la stessa parte che ha predominato anche stavolta e che per essere rispettata fino alla fine ha spinto PJ in un’esperienza durata quattro anni in viaggio tra Kosovo, Afghanistan e Washington. Questi sono infatti i luoghi che hanno ispirato The Hope Six Demolition Project che prende il nome dal progetto americano, HopeVI, finalizzato a demolire gli alloggi pubblici dei quartieri più disagiati per costruire nuovi centri abitativi.

«Raccogliere informazioni di seconda mano sembrava troppo sconnesso da ciò di cui stavo provando a scrivere. Volevo annusare l’aria, sentire la terra e incontrare la gente dei luoghi da cui ero affascinata.»

E questo è esattamente ciò che ha fatto. L’esperienza però, condivisa con l’amico fotografo e filmmaker Seamus Murphy, ha dato vita a un progetto ancora più ampio e ambizioso, accompagnando a questo disco anche un libro che raccoglie poesie scritte da lei e immagini scattate da lui.

Ma la cosa più importante è che questo progetto non solo si propone come un’opera politica e sociale ricca di spunti su cui dibattere ma va anche a incidere in modo convincente sul patrimonio musicale della Harvey nella storia del rock, scrivendo quella che è probabilmente una delle pagine più avanguardistiche della polistrumentista-cantautrice. Ci troviamo infatti di fronte a un disco che prende il meglio dei suoi due ultimi predecessori e li mescola saggiamente in una formula che riporta la sua musica ad un livello avanzato unendo alla sua caratteristica spettralità folk, ruvide chitarre che conferiscono a ogni singolo brano uno stile diverso. A partire da The Community Of Hope che ha una delle melodie a suo modo più solari del disco, in cui si sente il lavoro delle chitarre rock che danno un ritmo molto sostenuto al pezzo e che lo rendono particolarmente accessibile a chi lo ascolta. Una scelta per niente casuale data l’importanza del suo significato che in realtà è una critica proprio al progetto sopracitato che dà il nome all’album.

Naturalmente le polemiche sono arrivate numerose. In primis l’accusa di aver parlato senza essersi imbattuta davvero in quello che aveva deciso di raccontare, risultando un po’ come una sterile osservatrice. Se in parte questo può essere vero in quanto nei testi non vi sono particolari momenti in cui la scrittura diventa viscerale e toccante come invece solitamente è per la Harvey, di sterile in questo lavoro non c’è proprio nulla. Il fatto stesso che si sia avvalsa di guide, di persone, per vedere quei posti dimostra quanto ci tenesse a capirli e a capire come tutto venisse percepito dall’umanità del posto. E infatti è proprio questo che più di tutto emerge in questo disco: la toccante vicinanza alla sofferenza delle persone piuttosto che un modo per esprimere il proprio pensiero in merito a delicate questioni. Le prove corali intensificano i momenti più tesi come in The Ministry Of Defence, il pezzo più “politico” dell’album, e la marcia oscura di Chain Of Keys che più di tutti gli altri pezzi richiama il sound tipico della Nostra. Ma la vera bellezza di THSDP sta nella capacità di PJ di usufruire di tanti ingredienti diversi e amalgamarli in modo neanche troppo articolato ma sicuramente di grande impatto...continua su Vinylistics

 
 
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