E' Agosto, il mese dei Perturbazione: ricordiamoli con l'intervista a Snatura Rock dello scorso gennaio

5 Agosto 2016

Orecchie attente per le risposte di Tommaso Cerasuolo, cantante dei Perturbazione. L’ex sestetto, oggi quartetto, completato da Alex Baracco al basso e i fratelli Cristiano (chitarre, programmazione) e Rossano Lo Mele alla batteria.

Riferiamo del disco nuovo “Le storie che ci raccontiamo” che è il vostro settimo album in studio uscito per Mescal. Voi siete per la musica italiana come l’America. L’America dà spesso buoni input da seguire che cambiano e formano generazioni così io credo, siete voi per le canzoni rimanendo una certezza a cui aggrapparsi. Ecco ti chiedo come prima cosa da dove inizia questo disco nuovo. Qual è stata la prima canzone finita e se l’inizio della composizione è dipeso da altro?
Il disco ha una canzone in particolare “Trentenni”, nata prima di tutte quante, tra quelle che ti porti nel cassetto a lungo. È stata una delle cose a cui lavoravamo al tempo di “Musica X”, il disco precedente e tante volte non sei tu il miglior giudice di te stesso. Quindi hai bisogno poi di rimaneggiare completamente alcune canzoni e infatti poi è uscita una versione molto diversa rispetto all’idea tracciata nel 2014. È stata comunque una delle cose che ci ha colpito moltissimo di quel periodo. La canzone poi composta subito dopo è stata “La prossima estate” che è un pezzo molto spinto con tanto groove e rappresenta il nostro modo di voler ricominciare a lavorare con lo spirito giusto. Dopodiché sono venute fuori tutte le nostre storie. Questo disco alla fine ha trovato il suo titolo proprio perché ci siamo resi conto che tante canzoni erano come dei quadretti che avevamo costruito, soprattutto guardandoci attorno. Tendiamo ad essere meno bibliografici e più attenti al paesaggio umano che troviamo tra amici, conoscenti e passanti. Dico passanti perché spesso nel mondo della comunicazione quotidiana ci incrociamo con tanta umanità che anche solo attraverso quattro foto e la scelta di quelle quattro inquadrature, ti nascondono tutta una parte di vissuto col 90% dell’iceberg che sta sotto, ma allo stesso tempo stanno decidendo di rivelarti quel 10% che sono loro: le loro paure, le loro ambizioni. Sono le storie che si raccontano appunto e che ci raccontiamo.

La vostra canzone “Cinico” invece segue la tonalità pop a cui ci avete abituati. Così come un guardarsi allo specchio prima che è personale, poi diventa collettivo e le voci evidenziano in coro la realtà disillusa. Come nasce, com’è venuta fuori?
“Cinico” è un pezzo interessante perché si può parlare del modo in cui lavoriamo. Ci sono due squadre: quella più musicale che lavora sui riff e sui giri armonici, ovvero Cristiano il chitarrista e Alex il bassista, mentre Rossano ed io che ci occupiamo dei testi lavorando in quattro come abbiamo fatto nell’ultimo disco. I Perturbazione per tanti anni sono stati in sei ed è anche più semplice in un certo senso il processo di scrittura. Accumuliamo molte idee musicali e sui pezzi tra cui quella di Cinico che è un dialogo. Tante volte io finalizzo un po’ tutto e poi lavorando con Rossano sulla linea metrica e melodica. prendendo tutte quelle idee e premendole insieme elaboriamo dei trattamenti sugli argomenti. C’era questa idea del concetto del cinismo che nasceva da una scuola filosofica più complessa del significato che attribuiamo oggi alla parola Cinico, ossia sgamato e scaltro. Quello è uno dei significati della parola e tutto il resto ce lo siamo come dire bevuto. Questo ti sembra uno specchio di quella che è la società adesso. Il cinismo era anche una scuola di rigore morale, un modo di andare alla radice delle cose, cercare di vivere in modo essenziale e con grande disciplina . Si parte da quell’idea lì per poi dire che siamo noi i primi ad aver sviluppato un cinismo necessario, penso dopo gli anta - che sono i nostri anni - e che ti spingono a sviluppare una corazza, un tuo esoscheletro, rispetto alla realtà che ti protegge, ma ti rende anche più insensibile. Ed è una riflessione proprio su questo tema.

“Dipende da te” mette in evidenza questo vostro modo di essere incoraggianti. Parafrasandoti con un mondo capovolto sotto i piedi che sale mentre scendi scale mobili. Il vostro essere coinvolgenti per esaltare i vostri ascoltatori con la forza del testo come si concretizza qui?
Hai detto bene: incoraggianti è la parola giusta. Poi si abusa dell’aggettivo empatici, ma quella è l’idea. Ho detto tante volte presentando “Buongiorno buona fortuna” - un’altra nostra canzone che ha avuto una sorte fortunata dal vivo - questo è un pezzo da lunedì mattina, questo vuol dire che ti servono le canzoni per trovare quella catarsi rispetto agli eventi dolorosi della vita e molto spesso la musica ha un’ottima funzione da questo punti di vista, ma ti servono anche canzoni per darti la carica. “Dipende da te” è una canzone che abbiamo scritto non per fare i paraculi col mondo, ma perché serviva a noi per avere la carica in questi anni che sono stati molto belli, ma anche molto duri e faticosi. Nel senso che abbiamo vissuto un 2014 molto coinvolgente con l’esperienza di Sanremo e poi un bellissimo tour. Alla fine del quale però Gigi e Serena sono scesi dal furgone, come dico io metaforicamente, cioè chitarra e violoncello hanno concluso l’esperienza ventennale coi Perturbazione. Un po’ per le loro vicende personali perché erano una coppia nella vita oltre che nella musica e dal loro divorzio è nato il fatto che fosse difficile lavorare assieme e poi anche per motivi artistici e visioni diverse rispetto proprio al mondo musicale che stavamo andando a cercare. Quindi per “Dipende da te” c’è stata una grande armonia di nuovo in sala ed è stato difficile ritrovarla perché quest’ultimo periodo era stato colmo di conflitti. C’era però anche la consapevolezza che una parte di mondo ci stava aspettando, dopo l’esperienza sanremese e dopo questa separazione perché si vuol giudicare giustamente quello che facciamo. Ma è giusto. Se fai una cosa artistica ti becchi anche le critiche e non soltanto i complimenti. Quindi questo dipende da te per noi è dire: sei tu che scegli come giocartela, che atteggiamento avere verso le cose. Non puoi decidere a priori il risultato delle tue azioni e le conseguenze che avranno, ma con l’atteggiamento con cui l’affronti puoi soprattutto determinare la tua serenità, piuttosto che il risultato che poi come dice “Everest” le scelte fatte a caso forse il caso aggiusterà.

Le storie adolescenziali che troviamo in “Io ti aspettavo già” o “Cara rubrica del cuore”. Queste storie con i tremori, le sensazioni provate per la prima volta, le illusioni appena nate dopo il primo distacco dalle certezze della mamma, spesso compaiono nelle vostre trame, anche nei dischi precedenti, questo è legato alla spontaneità e purezza con cui si respirano e si affrontano le sensazioni sentimentali per la prima volta?
Più che sensazioni adolescenziali io penso ci sia l’idea di una fragilità di una risposta molto ingenua in qualche modo rispetto alla vita. Poi è buffo perché in una canzone come “Trentenni” che s’intitola così ma presentandola dal vivo, nei palchi, nelle librerie e nelle radio: incontriamo persone delle età più diverse che ci dicono che quella è una fotografia esatta di come si sono sentiti quando quella certa storia lunga è finita in quel modo e così via. Quindi io credo, e hai detto bene, sono canzoni probabilmente adolescenziali nel senso che noi invecchiamo e continuiamo a lavorare ma su quello che è il passaggio fondamentale verso l’età adulta. Passaggio che segna di più le contraddizioni che ciascuno di noi vive e che poi diventando adulto, appunto più cinico per citare poi l’altro titolo, si tende a seppellire sotto una coltre di imborghesimento, ma anche di falsità e anche di quella durezza necessaria che ti serve per affrontare la quotidianità, la vita fuori dal nido. C’è quella fase invece di passaggi in cui sei più nudo, sei più esposto. A volte quella fase in realtà si prolunga o semplicemente si risveglia, come se fosse uno stato virale che poi però non sviluppa gli anticorpi. O meglio, come quando hai le difese immunitarie che vanno giù, quella fase dell’amore, dell’affrontare la vita. Credo non abbiamo scritto tanto pensando a un età precisa.

“La prossima estate” e “Ti aspettavo già” le hai cantate con la stessa foga e poi l’elettronica è più presente che altrove. Sono canzoni legate allo stesso momento compositivo?
Sì, sono legate al modo in cui lavoriamo che ha raccolto moltissimi stili musicali diversi: nel tempo abbiamo imparato a farci ispirare in modo molto più trasparente. Quando sei più giovane hai la paranoia di scrivere il riff che non è mai stato scritto, ma poi con l’esperienza, con l’età una volta finito quel certo giro di accordi, ti accorgi chiaramente dei riferimenti. Per esempio mi viene in mente Bowie che di questa cosa ha fatto una carriera. È stato influenzato da tantissime correnti musicali diverse però era sempre Bowie. Quindi noi nel tempo abbiamo imparato più che altro a cogliere tantissime idee musicali diverse, tra cui anche un lavoro con l’elettronica che non nasce come vestito che metti dopo ad una canzone ma proprio nella composizione ottenuta dai tuoi strumenti, dalla voce dalle percussioni che hai in sala prove da strumenti veri. E quelle canzoni diventano la scrittura che nasce insieme a quelle possibilità espressive e in quel senso non sono due pezzi scritti uno vicino all’altro ma continuano ad essere nel segno di quel cambiamento che aveva dato Musica X - il nostro disco precedente - che andava molto in quella direzione. Forse in un modo osé, nel senso dovevamo fare quel passo lungo e proprio per quello avevamo lavorato con l’esperto Max Casacci, il chitarrista dei Subsonica e anche produttore di quel disco. Abbiamo trovato la direzione giusta puntando sulla sottrazione delle chitarre, sulle linee del basso e della batteria, la ritmica e il groove. Quelle che hai citato sono canzoni che continuano in quella tradizione però mi piace tantissimo come invece l’ha integrato dentro tutto un disco eterogeneo Tommaso Colliva, che è il produttore con cui abbiamo lavorato per il disco nuovo. Lui fa davvero attenzione perché, nonostante le influenze diverse, è riuscito ad ammorbidire gli spigoli e a mettere tutto in questa sfera che è poi quella con cui palleggi mentre fai uscire il disco.

Poi mi è piaciuta molto anche “Everest” che ricorda un quartetto anni 30 spolverato e colorato con colori pastello con il rapper Ghemon che interviene col suo tempo.
Sì hai colto bene. Infatti Cristiano e Alex, che si occupano molto delle idee musicali, hanno anche un altro progetto, i Toto Zingaro, con cui contaminano le mille influenze musicali. Una di queste che piace molto a Cristiano è lo stile Manouche, cioè quella musica jazz swing con influenze flamenco. Da lì è venuta fuori una canzone molto sbarazzina e molto immediata che poi nel cambio di passo che ha quando entra Ghemon, con appunto una parte rappata, è stato lo step che ci serviva per svoltare il pezzo. “Orchidee” l’ ultimo disco di Ghemon ci era piaciuto molto ed è girato tantissimo in furgone e negli ascolti in cuffia di ciascuno. C’era questo tormentone ‘fino a qui tutto bene’ ripreso da “L’Odio” di Mathieu Kassovitz e di nuovo riferimenti letterari, musicali e cinematografici. Cannibalizzare tante cose è tipico della musica pop. Non lo intendevo solo in senso musicale, ma lo intendevo anche in senso di tante espressioni artistiche. E quindi è venuta fuori questa bella idea di Tommaso Colliva di chiedere a Ghemon di scrivere direttamente lui cosa gli ispirava Everest che poi dice semplicemente di usare la montagna più alta del mondo come semplice metafora della vita e degli obiettivi a volte irraggiungibili che ti dai, che a volte sono necessari ma sono anche delle trappole.

“Da qualche parte nel mondo”: questa canzone lecca ferite, come dicevamo una volta, tira fuori il tuo lato crooner e così abbassa le luci, raccogli a te l’attenzione di mille orecchie che trovano condivisibile questo legame spezzato inesorabilmente e aspettano la tua soluzione. Parafrasandoti, forse non saremo mai i migliori, ma insieme stiamo meglio che da soli. Com’è venuta fuori questa canzone?
Questo è uno dei temi di cui parliamo tanto e quindi stiamo attenti con Rossano a non scrivere dieci canzoni così nello stesso disco, perché siamo due papà, due quarantenni con figli e relazioni lunghe. Sappiamo quanto la vita sia ricca di soddisfazioni, ma anche di giornate grigie ripetitive, di insoddisfazioni sopite di mille cose che guardiamo attorno a noi e a volte viviamo noi stessi, quindi da tutte queste discussioni nasce questa canzone che è, come hai detto, tu ‘lecca ferite’. Ci sono le canzoni incoraggianti che ti danno appunto coraggio e poi ci sono anche le canzoni lecca ferite, ma anche per dirci di tanti sogni di cui ci nutriamo. Molto spesso ci dimentichiamo delle persone che ci stanno più accanto. Forse questo è stato uno dei problemi che abbiamo avuto con Gigi negli ultimi anni, il nostro ex chitarrista, perché lui è una persona incredibile, assolutamente entusiasta soprattutto quando incontra delle persone nuove. Tende a logorarsi parecchio e a logorarti in relazioni lunghe. Questo è forse in generale uno dei problemi di maggiore insoddisfazione di questi anni. Il dimenticarsi di chi ti sta accanto e si ‘smazza’ le rotture di palle quotidiane. Ha un ruolo così importante e molto spesso così sottovalutato che ricordarselo ogni tanto con una canzone è bello.

La title track “Le storie che ci raccontiamo” racconta un po’ la cecità di ascoltare solo quello che ci conviene rimanendo attaccati a storie che ci siamo costruiti per affrontare il mondo. Mi hai fatto pensare a quello che accadrebbe se i nostri pensieri fossero udibili. Com’è venuta fuori questa canzone?
Bella bellissima questa frase, ti dico già che la userò io stesso. Io cannibalizzo. Tanti riferimenti culturali anche nelle interviste che faccio e quando mi fanno una buona domanda, tipo un riferimento, io la rubo e la uso altrove. Hai detto bene perché è un po’ il pensare a voce alta l’idea della scrittura come percorso. Perché scrivi? perché ti esprimi? perché scrivi canzoni? perché fare dei film? perché cerchi delle metafore molto più grandi di te? A volte partono da qualcosa di molto privato, ma poi devono invece trovare una dimensione intima in cui ognuno si possa riconoscere e questo è uno dei motivi per cui noi scriviamo tanto.“Le storie che ci raccontiamo” è l’idea di un compendio dei motivi più diversi per il quale uno scrive che poi in comune hanno la ricerca del movente, quello che cerchiamo nei personaggi più profondi. Ci chiediamo perché stanno facendo le cose, le fanno nell’epoca della Bella Epoque, possono farlo nel Medioevo, in un libro giallo e in un noir, cambiano tantissimo i concetti del tempo, del dove, del quando e così via, ma le storie che funzionano bene sono quelle dove il movente è quello che ci riesce ad inchiodare allo schermo e alla sedia. Questo è il nodo finale e non a caso si chiude con un lungo reading di Emma Tricca che è questa cantautrice folk italiana che vive da tantissimo in Inghilterra e si muove molto nella scena folk inglese. Per noi però non ha usato la voce per cantare ma per recitare il testo del regista anglo indiano Shekhar Kapur che aveva diretto anche “Elizabeth”, “Le Quattro Piume”, eccetera. E aveva fatto una conferenza intitolata “We are the stories we tell ourselves”. L’abbiamo trovata in rete e abbiamo deciso di usare il frammento del suo discorso dove dice ‘Le grandi storie sono il nostro quotidiano che però riusciamo a trasformare in storie, questa è la nostra mitologia, la nostra epica: senza quella siamo perduti.’ Ecco perché mi vengono in mente tutte quelle malattie che hanno a che fare con la perdita della memoria, che ci getta spesso nel panico. Perché in fondo abbiamo paura che venga meno la storia di quello che è il personaggio che ci siamo creati per rassicuraci.

Tra gli ospiti ci sono anche Andrea Mirò e Massimo Martellotta, però tutti gli ospiti sono entrati in queste canzoni in punta di piedi. Quasi come un cameo in un film.
Noi non ci sediamo a scrivere un cast prima di fare un disco, pensando vogliamo lavorare con queste persone. Di volta in volta che c’è un bisogno narrativo andiamo a cercare di capire con chi potremmo lavorare. Massimo Martellotta ha fatto un lavoro ancora più prezioso del solito, perché avevamo bisogno di assumere un tastierista e pianista così Tommaso Colliva producendo il disco ha detto: queste parti che avete scritto o al computer o suonandole possiamo farle suonare bene con l’interpretazione e il colore a Massimo, che nei Calibro 35 suona la chitarra, ma nasce anche come pianista. C’è piaciuta l’idea e ha lavorato davvero benissimo su molti pezzi. Tra gli ospiti del disco mi piace ricordare anche Elena Diana che è la nostra ex violoncellista che però in “Io ti aspettavo già” e “Da qualche parte nel mondo” suona il violoncello e ha composto in parte con noi perché erano canzoni nate nel 2014, nel periodo scrittura di questo disco. La canzone è impreziosita dalla sua bella presenza si può dire un po’ magica. Poi c’è Andrea Mirò che è speciale perché è la voce che c’è nel duetto di “Cara rubrica del cuore”: prima c’è l’uomo e poi c’è la donna che in qualche modo risponde. L’influenza che abbiamo notato è quella degli Stars che sono un gruppo canadese che ci ha colpito tanto negli ultimi anni. “Cara rubrica del cuore” credo risenta molto della loro scrittura e dei loro tipici duetti uomo/donna. È il nostro omaggio al gruppo. Andrea Mirò la interpreta veramente in modo splendido e oltretutto è una buona amica nel senso che ci ha diretti molto bene sul palco dell’Ariston nel 2014 e adesso ci accompagnerà dal vivo come quinto polistrumentista. Aprirà i concerti con anche le sue canzoni nuove, perché anche lei ha un disco in pubblicazione nella primavera e poi si unirà con noi sul palco per rendere corposi tutti gli arrangiamenti che abbiamo. Stiamo provando proprio in questo periodo ed è molto bello ed entusiasmante lavorare con lei.

Il disco dove e come è stato registrato?
Il disco è stato registrato per la gran parte a Londra, iniziando dallo studio di Mike Oldfield che si chiama Tilehouse Studio, disponibile per fare bassi e batterie e poi le chitarre sono state fatte per la gran parte nello studio di Tommaso Colliva, il Toomi Labs, che è sempre a Londra. Invece le voci le abbiamo finite in Italia. Ma per questo disco, come anche per i precedenti, siamo influenzati da sonorità anglosassoni, da tanti gruppi del pop inglese con cui siamo cresciuti: Pulp, Blur, Everything But The Girl, Talk Talk, Smiths, tutta quella musica che abbiamo ascoltato tanto. Era nelle nostre orecchie quando abbiamo raggiunto Tommaso Colliva a Londra perché il motivo per cui siamo andati lì era che lui lavora per la gran parte del tempo con i Muse e per necessità aveva bisogno di stare nei paraggi. Noi abbiamo accolto quella necessità come un segnale del destino, come una ripartenza. Goderci quell’atmosfera riuscendo a far quadrare tutto il cerchio non è stato semplice sia come logistica che come costi di Mescal - che è l’etichetta che pubblica il disco – ma alla fine ce l’abbiamo fatta.

La Mescal per voi è come le nuvole: va, torna.
Sì la storia discografica dei Perturbazione è una storia strana e di ritorni. Mescal è stata un’etichetta che è nata negli anni 90 e ha avuto il suo periodo veramente glorioso scoprendo e facendo sbocciare gruppi come Afterhoures, Massimo Volume, La Crus e Bluvertigo. Ce ne sarebbero tantissimi. Ha poi avuto la parabola ascendente con i Subsonica. Quando noi abbiamo firmato nel 2005 con loro con “Canzoni allo Specchio” il nostro secondo disco in italiano e terzo della discografia erano nel momento di massimo splendore. Da quell’anno però c’è stata una certa stanchezza soprattutto motivazionale. Credo che Valerio Soave avesse semplicemente voglia di fare vedere anche altre cose. Ci aveva messo tantissima energia e sangue e aveva voglia veramente di staccare un attimo. Mescal da sempre è rimasta un’etichetta vera, tant’è che è attraverso lui che siamo riusciti ad approdare alla Capitol/Emi. Quella poi è un’altra storia perché con loro non ha funzionato per il direttore artistico. Dopodiché c’è stato un periodo in cui eravamo proprio indipendenti. Siamo usciti per Santeria ma come ‘personal distribution’ cioè cercavamo noi le strutture con cui lavorare, finché abbiamo visto che Mescal aveva ripreso ad essere più attiva, quindi ci siamo cercati a vicenda e abbiamo fatto sentire i provini di “Musica X” a Valerio a cui erano piaciuti molto: ne è conseguito un periodo molto bello. Abbiamo fatto tutto un percorso fino ad arrivare al Festival. È stato quel disco che poi è piaciuto molto alla direzione di Sanremo diretta da Fabio Fazio. Erano venuti a cercarci dicendo che il disco era bello e di presentargli dei pezzi. E che gli sarebbe piaciuto averci se la canzone fosse stata quella giusta. L’hanno poi indovinato loro il pezzo scegliendo “L’Unica”. Insomma da tutto questo poi nasce questo disco. Non nascondo il fatto che sia difficile in questi anni per la discografia lavorare nel senso che è più dura perché i dischi non si vendono più, anche se continuano ad essere l’oggetto di nuove storie che ci raccontiamo. L’oggetto che tutti vogliono e che tutti cercano perché è la buona narrazione, le buone serie tv che andiamo a cercare disperatamente la sera per nutrirci di storie universali anziché del nostro piccolo quotidiano postato on line ogni cinque minuti. Quella è la necessità dell’umanità: tutti vogliono le storie però si fatica a concretizzare il ‘dinero’ attorno a tutte queste cose. Quindi un po’ Mescal e un po’ noi si lotta serenamente sperando anche in colpi di fortuna o in incontri magici. Poi il bello di lavorare in questo campo è anche incontrare mondi diversi dal tuo. Quello del cinema, della moda, del teatro con cui poter possibilmente lavorare e creare, andare a servizio con la musica delle cose piuttosto che pensare sempre di essere tu antagonista.

Invece cosa vi è mancato su queste canzoni di Gigi Giancursi e Elena Diana che dicevi hanno lasciato la band. Cosa vi è mancato di loro su queste canzoni sul modo poi di portarle dal vivo.
Dal vivo stiamo lavorando molto bene con Andrea Mirò. Abbiamo suonato la scorsa estate in quattro in modo molto più essenziale con degli arrangiamenti ridotti ma anche con la voglia di dare quell’impatto alle canzoni, una forma più semplice. È stata la nostra prova. Siamo cascati la prima data per alcuni problemi tecnici dopodiché ci siamo rialzati ed è andata molto bene. C’è ovviamente la voglia e la necessità di non rimpiazzare Gigi e Elena nel senso di emularli ma di ri-arrangiare tutto con i suoni che possiamo avere adesso. Molte più tastiere e pianoforte che è uno degli strumenti di Roberta aka Andrea Mirò. Altre chitarre. In generale sono stati anni bellissimi. Ma non rimpiangiamo quelle cose perché semplicemente pensiamo si debba andare avanti. Che sia giusto così. In particolare sono stati gli ultimi due molto belli ma anche anni molto faticosi, per le loro vicende personali riguardanti la separazione. Per cui devo dire che questo periodo mi piace perché, anche se non è semplice lavorare a livello economico, c’è molta armonia ed entusiasmo in sala prove. Mai un conflitto. Sì i conflitti ci sono nel senso discuti su delle idee ma lo fai in modo tranquillo. Siamo armonici e armoniosi direi.

Per avere il disco cosa bisogna fare?
Andare in un negozio di dischi oppure se disponibile sulle piattaforme digitali e tutte le Feltrinelli . Il disco ha anche un digipack molto bello che potrete apprezzare acquistando la copia fisica.

perturbazione.com

Francesca Ognibene

 
 
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