Natalia Ginzburg, (Palermo, 1916 – Roma, 1991), di cui ricorre il centenario della nascita il 14 luglio 2016, è una delle voci più belle e più amate del Novecento. Anche ReadBabyRead vuole partecipare alle celebrazioni con la lettura di alcuni brani dalla raccolta di saggi "Le piccole virtù". La voce è di Sarah Ventimiglia.

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Natalia Ginzburg: “Le piccole virtù” (2/4)

22 Settembre 2016

Natalia Ginzburg, (Palermo, 1916 – Roma, 1991), di cui ricorre il centenario della nascita il 14 luglio 2016, è una delle voci più belle e più amate del Novecento. Anche ReadBabyRead vuole partecipare alle celebrazioni con la lettura di alcuni brani dalla raccolta di saggi Le piccole virtù. La voce è di Sarah Ventimiglia.


ReadBabyRead #300 del 22 settembre 2016


Natalia Ginzburg

Tre brani da “Le piccole virtù”

Il mio mestiere
Lui e io
Le piccole virtù

(parte 2 di 4)


per info su F. Ventimiglia e C. Tesser:

Lettura e altri crimini
iTunes podcast


Legge: Sarah Ventimiglia


Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani..


Natalia Ginzburg, operaia della vita
Un secolo dalla nascita

Ho conosciuto Natalia Ginzburg, poco più giovane di mia madre, ancora bambino. Non so più in che anno siamo diventati vicini di casa, abitavo come Natalia a due passi dal Pantheon in una Roma buia, stupenda, dominata dai gatti (che non ci sono più) e infestata dai topi. Se la incontravo per strada la salutavo dandole del lei. Natalia mi rispondeva dandomi un tu non so se affettuoso e distratto o solo distratto. Più tardi, quando ci siamo trovati a frequentare le stesse baraonde letterarie, il nostro rapporto non è cambiato. Di nuovo c’era solo che adesso conoscevo i suoi libri più famosi e leggevo i suoi articoli di cui apprezzavo particolarmente certe scorciatoie che tagliavano via le spiegazioni inutili e una prosa «tutta sostenuta sull’onda dell’asindeto» (Montale).

Ho finito così col considerarmi qualcosa di più d’un semplice lettore di Natalia e qualcosa di diverso da un suo amico. Forse, visto che ero come lei ebreo di padre e cattolico di madre, ho preso a considerarmi una specie di suo parente non parente. La Ginzburg in due parole? Non era mondana, non era pettegola, aveva qualcosa di adulto e di severo che la differenziava dagli altri scrittori italiani. Montale, il più ascoltato dei suoi critici geniali (ma come fare a meno di Garboli o di Citati o di Pampaloni?), ha scritto d’un racconto di Natalia che è «cosi grigio da risultare poi vivamente luminoso, una volta che gli occhi si sono abituati all’uniformità di colore». Per capire com’era effettivamente la Ginzburg, facendo chiarezza sulle sue radici letterarie, bisogna tuffarsi nel bellissimo ritratto che ci ha lasciato di Cesare Pavese cioè del suo vero e forse unico maestro. Bastino dunque queste poche righe, queste parole che vanno lette come si legge un credo o una confessione: «Diventavamo, in sua compagnia (in compagnia di Pavese, ndr), molto più intelligenti; ci sentivamo spinti a portare nelle nostre parole quanto avevamo in noi di migliore e di più serio; buttavamo via i luoghi comuni, i pensieri imprecisi, le incoerenze».

Non so cosa Natalia, che in questi giorni viene ricordata a Torino per il centenario della nascita, abbia imparato davvero o cosa abbia creduto di imparare da Pavese, sapendolo già di suo. Ma che differenza fa? Lei gli doveva quanto credeva di dovergli, cosi va in letteratura con i maestri quando siano veri maestri e non saccenti professori. Una cosa posso affermare da passante, da vicino di casa della Ginzburg. La sobrietà era la sua inconfondibile divisa esistenziale. Non aveva, questa sobrietà, nulla di malinconico o di dimesso, ma anzi vestiva una tutt’altro che rassegnata fierezza femminile. Era un modo di essere, di trattare con gli altri che andava perfettamente d’accordo con l’antifascismo dell’educazione famigliare di Natalia, con le molte cose imparate negli anni trascorsi più tardi lavorando appunto con Pavese ma anche con Calvino all’ombra di quel grande editore oggi quanto mai da rimpiangersi, da studiare anche negli errori, che fu Giulio Einaudi.

Quel laboratorio, quella cucina si sentono e si apprezzano soprattutto in quegli scritti della Ginzburg dove la misura breve non ammette la più piccola svista, la più piccola distrazione. Rimando i lettori, per misurare il talento e l’alta scuola di questa nostra scrittrice che a volte amava truccarsi da ingenua massaia, a una confessione dove un’onda di tenerezza e un consapevole narcisismo governati da un’ironia fatta soprattutto di autoironia danno vita a un racconto che voglio immaginare sarebbe piaciuto molto a Saul Bellow. Si intitola La mia psicanalisi. Incomincia cosi: «Un tempo ricorsi alla psicanalisi. Era estate, era l’immediato dopoguerra, vivevo a Roma. Era una estate afosa e polverosa». Il nome dell’analista non viene mai pronunciato ma tutto lascia credere sia Ernst Bernhardt, che ebbe tra i suoi pazienti anche Federico Fellini e Roberto Bazlen. L’autore di quelle «lettere editoriali» da leggersi quale esempio di prosa critica alternativa. Natalia, moglie di Leone Ginzburg, era una donna che scriveva, amava e lottava. Nella sua vita c’è stato anche il dolore ma non ne ha dato mai spettacolo. Non basterebbe dire questo? A me sembra di sì, anche perché a testimoniare l’autrice del Lessico famigliare, a spiegarla, a difenderla rimangono appunto i suoi libri. Aggiungerò che la sua è stata un’esistenza che non ha fatto spazio a pettegolezzi, a aneddoti più o meno salottieri, a chiaroscuri sentimentali.

Nulla ho detto fino qui della semplicità di Natalia. Una semplicità esigentissima che non concedeva deroghe, eccezioni. Penso che il superfluo, immagino che i pensieri che non quadravano la facessero fisicamente soffrire. Per prima cosa, incontrando Natalia, colpiva (almeno cosi è successo a me) la sua voce chiara, forse volutamente decelerata di chi vuol capire e farsi capire. Va aggiunto che Natalia fumava, avendo con le sigarette un rapporto un po’ mascolino quasi che in altri tempi il ricorso al tabacco fosse stato per lei anche un’astuzia suggerita dalla timidezza. Portava i capelli corti, vestiva in modo da apparire sempre in ordine e «a posto». Il suo rifiuto delle più atteggiate vanità donnesche, cosa che dalle fotografie non si può arguire, era viceversa determinante. Natalia si abbigliava un po’ come un’operaia della vita costantemente impegnata alla catena di montaggio delle sue responsabilità di scrittrice, di madre di famiglia, di persona che non subisce passivamente quello che la vita le mette davanti. Anzi discute sempre e testardamente il da farsi.

Ecco un aspetto di lei che mi sentirei di sottolineare. La Ginzburg apparteneva con evidente consapevolezza a quella leva che, poco dopo aver compiuto la maggiore età alla fine degli anni Trenta, si era trovata a sfidare pericoli mortali, a patire infami persecuzioni, a soffrire lutti incolmabili. Una leva che più tardi, quando finalmente si fosse tornati a vivere perché liberati dal nazifascismo, avrebbe dovuto liberamente scegliere tra il perdono e la rabbia. In questo senso Natalia scelse una terza via cioè il giudicare attraverso la letteratura, ubbidendo a un’idea o forse sarebbe più corretto dire a un sentimento di sé, che l’accompagnava fin dall’adolescenza. In una pagina autobiografica, pubblicata nella raccolta Le piccole virtù con il titolo Il mio mestiere, si legge esplicitamente, con un ribattere sulle parole come si batte sul ferro fin quando è caldo: «Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quello che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani».

Negli ultimi quattro o cinque anni della sua vita, dopo che ci eravamo trovati insieme nella stessa tornata a sostenere l’esame per diventare giornalisti (non credevo ai miei occhi quando la vidi anche lei scrittrice famosa seduta a fare il compito scritto), ho incontrato più volte Natalia per motivi professionali cioè per intervistarla. Fatto sta che, proprio a causa della sua «tirannica» semplicità, portare a termine con Natalia un dialogo fatto di domande più o meno concise e di risposte dove la notizia, magari l’indiscrezione e comunque il parlare di sé si fondessero in un godibile racconto a due voci era tutt’altro che semplice. La Ginzburg avrebbe desiderato, io credo, domande e risposte in uno stile un po’ hard boiled. Voleva essere lei l’intervistatore e tu l’intervistato. Quando ti sentiva veleggiare nel bla-bla, ti interrompeva (molto educatamente, senza quasi fartene accorgere), bloccandoti con il suo tagliar corto. Pane al pane. Fu cosi che una volta, mentre le rivolgevo delle domande forse un po’ troppo timide e cerimoniose per un mio programma televisivo a proposito di Elsa Morante e dell’Isola di Arturo (conservo ancora il dvd), Natalia se ne uscì d’un tratto rivelandomi di essere stata gelosa del talento della sua amica Elsa. «Si, sono stata gelosa del suo talento».

Un’altra volta, in modo del tutto imprevisto parlando di religione, mi disse venendo al nocciolo: «A Dio ci penso sempre. Mi sento ebrea e cattolica nello stesso tempo. Non sono laica». Poi aggiunse di sentirsi «ebrea e basta» quando sui muri della città leggeva, come purtroppo accade ancora, «morte agli ebrei». Questa idea si trova d’altronde adeguatamente approfondita in un scritto intitolato appunto Gli ebrei, raccolto nel secondo tomo del Meridiano ginzburghiano, accompagnato da una lunga e illuminante e definitiva prefazione di Cesare Garboli. Per concludere penso che in Natalia ci fosse un’invincibile sebbene controllata ansia, un’ansia forse anche generazionale, di dire la verità su se stessa perché da questa verità faceva dipendere tutto il resto, letteratura compresa.

di Antonio Debenedetti
Il Corriere, 30 aprile 2016

 

Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Maria CallasSempre libera (La Traviata) [Giuseppe Verdi]
Maria CallasCasta Diva (Norma) [Vincenzo Bellini]
Renata TebaldiEbben? Ne andrò lontana (La Wally) [Alfredo Catalani]
Luciano PavarottiO Marenariello [Salvatore Gambardella]
Renata TebaldiSì, mi chiamano Mimì (La Bohème) [Giacomo Puccini]
Renata TebaldiIn quelle trine morbide (Manon Lescaut) [Giacomo Puccini] 
Maria CallasIl Dolce Suono ( Lucia Di Lammermoor) [Gaetano Donizetti]
Beniamino GigliAmarilli [Giulio Caccini]
Beniamino GigliQuanto è bella, quanto è cara (L'Elisir d’amore) [Gaetano Donizetti]
Maria Callas, L’amour est un oiseau rebelle (Carmen) [Georges Bizet]
Enrico CarusoUn dì felice, eterea (La Traviata) [Giuseppe Verdi]

 
 

Copertina:
Nanni Moretti legge alcune pagine del libro Caro Michele di Natalia Ginzburg al Salone Internazionale del libro di Torino (16 maggio 2016).

 
 

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