Elbow – Little Fictions

by MonkeyBoy (Vinylistics)

28 Febbraio 2017

Gli Elbow non sono mai stati una band entusiasmante, almeno non nell’accezione comune del termine. Se vi piacciono i paragoni potreste considerarli un po’ come i Wilco d’Inghilterra, ma meno dotati. Nonostante questo hanno avuto il loro momento ‘in cui tutto è cambiato’, coinciso con The Seldom Seen Kid del 2008 e relativo Mercury Prize. Ma di tutto ciò ho già parlato a proposito di The Take Off And Landing Of Everything, capitolo che ha preceduto quest’ultima, settima, fatica intitolata Little Fictions. Rileggendo quel pezzo mi sono accorto di esserci andato giù piuttosto duro con loro, non digerivo affatto le ottime premesse non trasformate in altrettanti ottimi risultati.

Da allora sono cambiate molte cose all’interno del gruppo mancuniano: Guy Garver (voce), Craig Potter (tastiere, piano e produzione), Mark Potter (chitarra) e Pete Turner (basso) sono rimasti orfani – dopo ben 25 anni – del batterista Richard Jupp, andatosene sbattendo porte in faccia a tutto spiano. Perciò i quattro restanti hanno deciso di registrare fra la Scozia ed i Blueprint Studios di Salford; a differenza di quanto successo con Take Off qui le sessioni sono state condivise da tutti i membri contemporaneamente: scrittura e composizione collettive, quello che si dice un ‘band album’. Accompagnati dal turnista Alex Reeves alla batteria ma soprattutto dalla The Hallé Orchestra ed il suo coro, gli Elbow aprono con una delle migliori canzoni dei loro ultimi dieci anni, Magnificent (She Says). In quest’inizio ci sono molte delle novità di Garvey e compagni: l’orchestra d’archi, un accattivante riff di chitarra elettrico, un senso ritrovato di gioia e positività che si uniscono alla solita voce educata e avvolgente, ed all’ottima melodia.

L’abbandono di Jupp ha costretto o forse solo suggerito alla band di porre molta più attenzione al groove. Nella discreta Trust The Sun giri di basso e chitarra leggera rendono sabbioso lo sfondo vagamente ansiogeno ed un po’ masticato, mentre l’ottima Gentle Storm si focalizza appunto sulle ritmiche, con un loop di percussioni semi-industrial che si ripete all’infinito mentre il frontman con una prova vocale notevolissima canta “Fall in love with me, every day” riuscendo nell’impresa titanica di non apparire sdolcinato né mieloso. A conti fatti, è la nuova vita di Garvey a tinteggiare di colori vivaci questa tela. La scorsa estate si è sposato con l’attrice Rachael Stirling e tutto trasuda amore e serenità ritrovata, seppur in alcuni momenti Little Fictions sia parecchio intimista e personale. Le tematiche tradizionali degli Elbow – senso di comunità, solidarietà, malinconia e passare del tempo – sono avvolte da una calma dello spirito invidiabile, anche quando nella pacata Head For Supplies o nella conclusione solenne ed orchestrale di Kindling emerge tutta l’incertezza che segue l’abbandono del compagno di una vita. Persino K2, sorta di lievissima invettiva contro Brexit sui generis (“I’m from a land with an island status, makes us think everyone hate us”), declina il tema più generale dell’isolamento su toni soavi, coadiuvati da echi e beat motorik sì presenti ma mai ingombranti.

E forse sta qui il demerito principale di questo disco, e per estensione di questa fase della carriera degli Elbow, ossia quello di bastarsi così come si è, non provare mai a fare il passo più lungo della gamba in maniera tale da starsene al sicuro nella propria comfort zone. Per carità, sono 48 minuti assai meno scontati e piatti rispetto all’album che li ha preceduti, ed anche gli episodi non proprio memorabili – la All Disco ispirata da una chiacchierata con Black Francis dei Pixies, la convenzionale Montparnasse e l’incalzante Firebrand & Angel – hanno più o meno tutte elementi distintivi non banali: una chitarra psych tardi anni ’60 là, un groove ipnotico qua, un testo esilarante ancora là (“Let your obsession go, it’s really all disco”). Dunque non ci si annoia mai veramente e la lunga title-track da sola potrebbe bastare a supporto di questa tesi. Complessa ed a suo modo epica, ha nel basso e nella batteria di Reeves il cuore pulsante che tra pause e ripartenze anima un crescendo progressivo che trionfa fra archi schizofrenici ed un’ispirazione cristallina (“We protect our fictions, like it’s all we are”)...continua su Vinylistics

 
 
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