a cura di Mirco Salvadori

Plundering The Ancient World

Intervista a Enrico Coniglio

1 Agosto 2018

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Incontrare un saccheggiatore del mondo antico è cosa che aiuta a capire quello moderno. Il loro agire non contiene violenza o sopruso, sono idealisti armati di microfoni ad alta sensibilità, la stessa che spargono lungo i solchi sui quali viene seminato il suono.
Enrico Coniglio è uno di questi gerriglieri inoffensivi ma pericolosamente capaci di estraniare e sconvolgere chi viene a contatto con i lavori che producono. Uno dei massimi esponenti italiani del soundscaping, maestro dell’alternanza sonora che permette ascolti intrisi di opposte materialità, legate all’apparente inconsistenza del suono registrato così come all’eterea dolcezza della melodia appena accennata.
Una chiaccherata questa, avvenuta qualche mese addietro in occasione della sua performance live all’interno della rassegna Strategie Oblique curata da Giuliana Placanica presso il Fusion Art Centre/Neo di Padova, rassegna dedicata ai suoni di confine che riprenderà in autunno.

AREAVIRUS-Topofonie Vol. 1 anno 2007, Open to the Sea – assieme a Matteo Uggeri - anno 2018, cosa è successo in questo lungo lasso di tempo, quali i cambiamenti anche mentali e cosa ti sei lasciato alle spalle.

Ci sono stati momenti fortunati, alternati a momenti di incertezza. Quando ho iniziato, agli inizi del 2000, sembrava tutto più facile, c’era molto entusiasmo e attenzione. Soprattutto non c’era tutto questo buzz continuo sui social e noi musicisti lavoravamo in modo forse meno smaliziato, ma più sincero. Non mi piace come è cambiato il mondo in questi undici anni. Oggi ho meno speranza nel futuro in generale, ma anche meno attese, meno ansia da prestazione. Ho capito che a un certo punto bisogna un po’ arrendersi. Rinunciare non significa per forza fallire, poi le cose succedono, ma ci vuole tanta pazienza.

Enrico Coniglio possiede due anime: l’intimista e introspettiva, legata al pensiero musicale che rispecchia l’eleganza silenziosa del classicismo elettroacustico e un’anima più fredda e lucida che alberga nelle sue sonorità di oltre confine. Come riesci a coniugare le due cose.

Il fatto è che probabilmente non riesco a coniugarle affatto. Esistono entrambe e trovano sintesi nell’incoerenza che mi contraddistingue. Se guardo indietro vedo un percorso pesantemente segnato dalle divagazioni, alcune più seriose, altre nell’alveo del divertissement. In ogni caso negli anni ho giocato a dare nomi diversi a queste diverse inclinazioni. Alcuni progetti, soprattutto quelli collaborativi, hanno funzionato bene (Lemures, My Home, Sinking, Herion…).

Qual’é la missione di un ricercatore che si occupa di soundscaping

L’oggetto della mia ricerca resta quello di capire come si trasforma il territorio e il suo paesaggio sonoro, che fine fanno le identità locali e le loro ipotetiche “soundmark” e se sia utile o meno preservarle. Ho capito che qualche risposta la posso trovare affrontando la questione attraverso la mia personale indagine sulle aree a margine, quelle zone di transizione e dunque di contaminazione tra le tessere che compongono idealmente i paesaggi delle nostre aree abitate . E’ un tema di ricerca che sto portando avanti in modo sotterraneo, quasi elusivo, e che ho potuto esplorare soprattutto grazie a qualche bella residenza artistica (vedi articolo su gli Stati Generali). Resta il fatto che per me il suono resta un mezzo potentissimo per re-inventare la realtà e la mia estetica è principalmente quella di esplorarne le possibilità immanenti.

“Paesaggio sonoro”, due parole ricorrenti che stanno occupando sempre più spazio negli articoli o nelle discussioni legate al suono di ricerca. Cosa si cela dietro questo binomio.

L’idea di paesaggio sonoro quale “ambiente dei suoni” di Raymond Murray Schafer, per la verità, mi è sempre sembrata riduttiva. Da parte mia negli anni ho sposato questa definizione: il paesaggio sonoro è un aspetto topofonico del paesaggio, dove il paesaggio è un “sistema complesso di ecosistemi”, frutto dei processi di trasformazione derivanti dall’interazione tra azioni antropiche e naturali. Questo approccio, di stampo ecologista, secondo me postula un concetto molto semplice: il paesaggio sonoro è sistema dinamico e di contaminazione. Ingenua è l’idea di farne un tempio per la nostalgia di un passato che è destinato a non tornare.

Si parlava prima delle due anime che albergano nelle tue composizioni. Pensandoci bene però credo che a prevalere sia quella dello scrittore che racconta un’appassionante storia e lo fa con il rumore del mondo che lo circonda. Basta ascoltare i tuoi lavori realizzati esclusivamente mediante il field recording.

Hai ragione, nelle mie composizione prevale l’aspetto narrativo, è qualcosa di innato che c’è dentro di me. Va detto che il suono esiste di per sé intorno a noi, catturarlo e operare su di esso è un’azione poetica che costruisce significato. Registrare e caricare centinaia di field recordings su archivi web, siano essi diari di viaggio o mappe sonore, mi pare invece un’operazione del tutto priva di senso, ingenua e ridondante… per questo non mi riconosco più nella filosofia che vede nel semplice atto della registrazione un’azione creativa in sé. Con il suono dobbiamo costruire qualcosa, sennò rischia di restare materiale inerte, che non genera nulla.

Una domanda che sovente pongo al sound artist che si occupa di estetica del paesaggio sonoro riguarda la sua appartenenza o meno ad un mondo che, visto da fuori, sembra poco legato ad una realtà diffusa, anche se per assurdo, di questa essenzialmente si occupa. Esiste come una barriera trasparente che filtra la passionalità rendendo assai ‘cattedratico’ l’approccio a questa disciplina. Qual’è il tuo pensiero a riguardo.

Il problema è in generale della musica elettronica che qualcuno ha battezzato ‘colta’: la barriera c’è sempre stata perché quel suono è poco accessibile ai più e perché i suoi fautori hanno sempre voluto mantenere un’aura di misticismo, barricandosi dietro uno scudo impenetrabile sotto il quale celare chissà quali segreti alchemici. Io sono dell’opinione che la musica elettronica vada presa meno sul serio e se possibile s-velata. L’esoterismo non ha portato a nulla, se non ad allontanare il pubblico.

Quella con Leandro Pisano – tra le mille cose, anche fondatore e direttore artistico del festival Interferenze – è una collaborazione che vi ha portato alla realizzazione della Netlabel Galaverna. Quali sono i propositi di questa etichetta digitale e cosa ne pensa Enrico Coniglio del suono gratuitamente distribuito, continua a mantenere intatta la sua spinta primaria o qualcosa é cambiato.

Io e Leandro abbiamo creato Galaverna quando la scena del netlabelism era già molto popolata e le label che stampavano erano in piena crisi, perché si cominciava a vendere sempre meno, diciamocelo. L’etichetta è nata come consorella di Laverna, come piattaforma su cui distribuire i lavori di soundartist impegnati personalmente sulla questione intorno al paesaggio sonoro contemporaneo. Per rispondere alla tua domanda, lo dicono le statistiche del nostro sito: oggi molto streaming e pochi downloads. Forse le nuove netlabel sono le cassette-label: ridotti costi di produzione, prezzi di conseguenza accessibili, su un supporto decisamente imperfetto ma che resta caldissimo. Non è solo retro-mania, la cassetta rappresenta il prodromo del pirataggio, quando si riversava, si duplicava, si registrava anche dalla radio o dalla Tv…
Molte netlabel hanno chiuso i battenti, con Galaverna resistiamo anche se un po’ a rilento. Abbiamo un bel catalogo e i riscontri positivi comunque arrivano.

Una domanda che mi sta particolarmente a cuore riguarda il rapporto tra il tuo suono e la città che da sempre lo ospita, Venezia.

Venezia è una città divorata dalla mono-cultura turistica, che sta subendo gli effetti che si registrano in tutti i centri storici italiani, né più né meno. La città è al collasso, è un processo innescato molto tempo fa, ineludibile e per questo catastrofico. Mi spiace, ho già detto che sono pessimista, per cui non vedo alcuna possibilità di salvezza. Provo a raccontare una Venezia in chiave non-nostalgica, per non rinunciare ad una visione lucida della tragicità del presente. Poi non so se ci riesco perché il romanticismo, come sensibilità personale di inventare il mondo, è fissato nel mio DNA. C’era una scritta su un muro che diceva: “Venice is sinking”… speriamo presto.

"The gran parade of hostile winds" è il titolo del tuo ultimo lavoro live presentato per ora a Mosca e a Padova all’interno della rassegna “Strategie Oblique”. Parlacene.

Questo lavoro è il punto di partenza per un nuovo modo di presentarmi dal vivo, basato su pochi dispositivi sonori con i quali riesco ad interagire in modo più concentrato e immediato. Il live si sviluppa partendo dalla generazione di frequenze molto alte, simili ad acufeni, appena intellegibili dall'orecchio umano e caratterizzate da un suono tagliente, progressivamente rinforzate dai battimenti prodotti dalla modulazione di frequenza dovuti alla layerizzazione degli impulsi tramite una loop machine. Mano mano che si scende di registro il set si complessifica fino a creare una tessitura di droni di stampo ambientale. Il proposito è quello di esplorare il suono interstiziale della materia, prodotto dalla frizione di frequenze acustiche la cui sovrapposizione fa emergere sonorità nascoste. Il titolo è stato suggerito da Diego Chersicola.

Due parole sulla data russa non possono mancare.

Il pubblico presente al centro del Cultural Centre DOM a Mosca, in cui ho suonato in compagnia di Giulio Aldinucci grazie al progetto VIVA ITALIA del geniale Dmitry Vasilyev, è stato molto affettuoso . Così come al NEO a Padova, cosa che non accade di sovente, specialmente qui in Italia. Molte strette di mano, chiacchiere e qualche disco venduto. Fa piacere. Al pubblico russo secondo me piacciono i suoni dalle tonalità scure, è gente del nord in fondo. Un’esperienza incredibile andarsene a spasso per la foresta ancora innevata, mentre Dmitry fora col trapano a batterie i tronchi dei faggi per raccoglierne il succo attraverso un deflussore per flebo. Nota di colore: per poco Giulio calpesta una vipera appena destata dal letargo invernale. Ci è andata bene.

Torniamo alle tue composizioni, quali gli input che le creano.

Ascoltare musica fatta dagli altri, sto pensando a quei dischi che vorresti avere fatto tu. Non sopporto chi dice di non aver tempo per ascoltare la musica degli altri. Gli spunti poi arrivano da ovunque. Credo sia soprattutto importante pensare molto prima di accendere il computer, premere play sul registratore o mettere le mani sulla tastiera di uno strumento.

Cosa leggono le stelle nel tuo futuro?

Sotto lo sguardo di stelle indifferenti e lontane: diversi progetti con Nicola Di Croce, con cui da poco abbiamo firmato il sound design del Padiglione Venezia per la Biennale 2018; un nuovo disco in fase di mixaggio con l’instancabile Matteo Uggeri e l’idea di un ritorno di Lemures, la butto là così Giovanni non si può tirare indietro…

 
 

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