Tra Robespierre e l'astrofisica

Intervista a Unòrsominòre

6 Febbraio 2012

a cura di Piergiorgio Svaluto

La vita agra di Unòrsominòre è un disco serio, che scuote le coscienze. Un'esplosione linguistica che prende di mira i ventri deificati negli ultimi trent'anni. Ascoltandolo ho pensato per analogia alla raccolta di racconti di Gadda, Accoppiamenti giudiziosi, nella quale l'autore programmaticamente intende essere il "Robespierre della borghesia milanese", cosa ne pensi di questa definizione, sostituendo magari il "milanese" con "del nord-est" o forse semplicemente "dell'Italia contemporanea"?

Un'altra similitudine che ho letto è "il Savonarola della musica italiana". Mi piacciono entrambe, metti che a pelle Robespierre mi stia più simpatico perché non fu chierico e perché c'è andato giù un po' più pesante, e poi anche Max Collini sarebbe d'accordo. In realtà non lo so, non ho ambizioni di censore né di castigatore, mi piace solo immaginare che qualcuno ascoltando il disco si possa fare qualche domanda, anche e soprattutto su se stesso. Ma infine credo sia una beata illusione pure questa, chi ha ascoltato e magari apprezzato, senz'altro sinceramente, poi torna al suo quotidiano e va avanti con le abitudini di sempre - e non per malafede, ma per ignavia, comodità, pigrizia, autoindulgenza. Bravo, illuminante, commovente, ora però vado a fare shopping, ora però sentiamo quest'altro che è più leggero. Sai, è un disco, non un manifesto programmatico di un movimento socio-politico. Eh mi sa che come censore valgo poco.

In Perdenti più sani canti “le parole sono importanti”, mentre in Ci hanno preso tutto: “ci hanno preso tutto […] anche i significati delle parole”, inoltre, come è stato segnalato da più parti, come il titolo del lavoro sia una citazione dal titolo del romanzo di Luciano Bianciardi; è indubbio come vi sia in esso, nell'album intendo, una cura per le parole, un custodirle assai raro nel nostro tempo ("tu sai quanto detesti l'approssimazione", in La vita agra II); quali, se vi siano, sono i tuoi riferimenti letterari? E come si potrebbe invertire la tendenza dell'abbrutimento televisivo e mass mediatico del linguaggio, se questa possa dirsi ancora possibile?

Ho alcuni riferimenti cardinali dal punto di vista linguistico - la prosa di Borges, di Bulgakov, di Eco - ma non saprei dire quanto di queste letture sia riconoscibile nel mio modo di scrivere testi; forse semplicemente mi aiutano a tenere sempre presente che una parola non è mai uguale a un'altra, e quanto scegliere quella giusta, o scegliere la giusta concatenazione di parole e accenti, sia importante e significativo. Una parola conta quanto un accordo; sceglierne uno invece di un altro, e suonarlo alterato o meno, fa differenza eccome. Circa il resto, credo che il cambiamento formale e quello sostanziale non siano scindibili. Prima o poi ci si dovrà rendere conto del fatto che chiedere a gran voce rinnovamenti o rivoluzioni strutturali senza esigere, a partire da noi stessi anzitutto, rigore nel metodo e nelle forme, è quanto di più incoerente, confuso, inefficace.

In questo orizzonte è quantomai importante ripetere i versi de Il mattino del 26 luglio: “chi parla di calcio non è innocente […] l'incoscienza è complicità”, ecco, è piuttosto chiaro il riferimento socio-culturale che intendi colpire, tuttavia da più parti si sente parlare del “vento che cambia”, intravvedi questo cambiamento potenziale o siamo intrappolati nell' “estetica del disimpegno” e nella “deontologia dell'aperitivo” (Perdenti più sani)? Riprendendo così la questione precedente, ma spostandola sul piano prettamente politico.

Non ho le idee chiare, in generale sono pessimista e a pelle ti direi che no, non lo intravedo. Ciascuno si crede sempre assolto e non coinvolto, i propri comportamenti sono in ogni caso giustificati o giustificabili e i responsabili sono sempre gli altri, sicché il cambiamento, che con Bianciardi "deve iniziare in interiore homine", non può mai essere incisivo, reale. Poi ad oggi l'alternativa non esiste, si ragiona per categorie predefinite dando per scontata e necessaria un'infinità di accidenti - che invece a ben guardare costituiscono solo una fra le molte possibili realizzazioni del mondo (è in qualche modo quello che canto in Storia dell'uomo...). Non vengono presi in considerazione, o se sì sono relegati a posizioni di estrema marginalità, punti di vista realmente radicali circa i modi e i rapporti di produzione, la redistribuzione delle ricchezze, la rincorsa alla crescita, e più in piccolo, nel nostro Paese, la rinascita di un'attenzione differente verso la cultura, l'impegno, la razionalità, l'umanesimo. Il "vento che cambia" è solo una brezza di superficie, non intacca le radici profonde; è scrivere status arguti su Facebook, non cambiare il proprio stile di vita per tentare realmente una qualche strada alternativa nell'approccio alla vita di ogni giorno. D'altro lato ho anche la sensazione che non si possa tirare la corda ancora per molto, e che qualcosa prima o poi debba accadere, un punto di rottura lo si dovrà raggiungere prima o poi. Che la situazione si risolva per il meglio o per il peggio, questo proprio non lo so dire.

Mentre tra i cantautori, di ieri e di oggi, chi apprezzi?

Di oggi non saprei davvero chi citare. Non seguo molto i cantautori odierni e quelli che conosco non mi piacciono granché. Preferisco le declinazioni in band, i Clara, i Ministri, il Teatro - in questi gruppi ravviso forme di cantautorato, nei testi e nelle tematiche, se magari non nei suoni, e per fortuna, perché i suoni "da cantautore" mi annoiano presto. Anche per questo mantengo spesso anch'io un approccio da band nelle mie composizioni e nei miei arrangiamenti, anche se scrivo e spesso produco in solitudine. Il cantautorato di oggi non mi piace, lo trovo generalmente povero se paragonato a quello dei padri storici, Fossati su tutti, e poi Gaber, De Andrè, Battiato, artisti straordinari di cui oggi non vedo epigoni. Forse Vasco Brondi, che pure non mi piace poi tanto, è uno da rispettare, per il tentativo riuscito di creare qualcosa di nuovo e quantomeno interessante 

Hai fatto riferimento alla declinazione in band, sebbene spesso le composizioni avvengano in solitaria: vi è una qualche difficoltà nel trasmettere e condividere le proprie idee e sensazioni musicali con altri musicisti che, almeno in principio, sono esecutori del tuo lavoro?

A volte sì. Ma succede sempre, anche nelle band "standard"; là si tratta di trovare un compromesso comune fra le personalità, qui di decidere dove fermare il mio potere decisionale e lasciare spazio libero agli altri. Circondarsi di persone che si stimano dal punto di vista musicale (e non solo) è importante, permette di lasciarli contribuire fidandosi delle loro qualità; altrettanto importante è che i patti siano chiari fin da subito per evitare recriminazioni e attriti, finché sia possibile. 

In La lingua del santo la tua critica sembra investire non solo un certo fideismo ipocrita, diciamo, da “figuranti della domenica”, ma anche una certa idea del divino, mentre in Testamento di Giovanni Passannante, dopo quella sorta di ouverture a rovescio che conclude il brano, le parole bisbigliate mi sembrano “noi siamo soli”. Ecco, rifiuti anche una religiosità, per così dire, a-confessionale oltre a quella che si esprime nelle forme storicamente determinate?

Rispondo citando Christopher Hitchens (personaggio controverso ma certamente dotato di cervello): "Sono un ateo. Non sono neutrale rispetto alla religione, le sono ostile. Penso che essa sia un male, non solo una falsità. E non mi riferisco solo alla religione organizzata, ma al pensiero religioso in sé e per sé". Con parole mie, aggiungo che ritengo che l'emancipazione dell'uomo da ogni forma di schiavitù debba necessariamente passare attraverso il crepuscolo degli idoli, la teoclastia, il definitivo abbandono di ogni forma di superstizione. Nel corso dei secoli la scienza è riuscita a spiegare sempre più fenomeni che ai nostri avi apparivano soprannaturali. Quelli che ancora non comprendiamo forse verranno spiegati in futuro; o forse no, senza che questo possa più giustificare l'invenzione di entità trascendenti che moltiplichino il numero dei misteri anziché diminuirlo. Preciso che in "Passannante" le ultime parole sono "ricordarci che non siamo soli", quindi in realtà è l'opposto di come sembra... Lì, sommerso da due minuti di feedback, c'è tutto una parte di testo che ho deciso di rendere inintellegibile (che non ha nulla a che vedere con il soprannaturale peraltro). Espressione artistica concettuale, proprio, altro che Yoko Ono.

In alcuni tuoi brani come Storia dell'uomo che volò nello spazio dal suo appartamento, o Gagarin, dal tuo lavoro precedente, coniughi un immaginario “stellare”, “extraterrestre”, con tematiche “umane, troppo umane” per dirla con Nietzsche; cosa di questo immaginario deriva dal tuo lavoro di ricercatore, di astrofisico? E concludo con questa domanda tra il faceto e il colto: il filosofo della scienza Carnap scrisse che “i metafisici sono musicisti senza talento musicale” e gli astrofisici con talento musicale?

Il mio lavoro mi dà spesso motivi di ispirazione, sì. L'astrofisica è affascinante e rigorosa al tempo stesso, un ottimo esempio di come si possa essere razionali e contemporaneamente volare alto. Ed è poco sfruttata nell'immaginario pop, a parte le solite scemenze romantiche sulle stelle che ci guardan da lassù. E' filosofia matematica, o matematica filosofica, vedi tu, ed è scienza al confine con la poesia.Comunque sono d'accordo con Carnap, la metafisica è per mezze seghe. 

 
 

Links utili:
unòrsominòre - la vita agra su soundcloud
unòrsominòre su FB
myspace.com/lavorarestanca
http://unorsominore.it
http://www.myspace.com/unorsominore

 
 
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