Il corpo del reato

“Il corpo come luogo di lotta politica è l’atto estremo della disperazione”. Steve Mc Queen

4 Maggio 2012

Margaret Hilda Thatcher è stata primo ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990, unica donna ad aver mai ricoperto questa carica.
Nell’insensata agiografia confezionata da Phyllida Loyd con The Iron Lady (peraltro meritato Oscar per Meryl Streep), c’è un momento in cui è possibile mettere a fuoco la vera personalità di questa inarrivabile donna di potere.
E’ quando il suo Stato Maggiore la mette al corrente dell’importanza strategica dell’incrociatore argentino Belgrano, nel pieno del conflitto per il possesso delle isole Falkland - Malvinas. Quando ordina senza esitazione di affondarlo  e di causare così 400 morti, nei suoi occhi c’è un lampo di gioiosa e autocompiaciuta crudeltà, di totale disprezzo per la vita umana, di verità finalmente, che vale tutto il film. In Hunger, opera prima del videoartista britannico Steve Mc Queen, possiamo invece ascoltare la sua vera voce nella primavera del 1981, durante la blanket and dirty protest attuata in Irlanda nel carcere di Long Kesh (soprannominato The Maze, il labirinto) dai militanti dell’IRA, l’esercito repubblicano di liberazione irlandese rinchiuso nel famigerato Blocco H, per protestare contro le umilianti e vessatorie condizioni di detenzione loro imposte dal governo britannico e perché venga loro riconsegnato lo status di prigionieri politici.

Quando proclama con la consueta durezza che non esistono reati e detenuti politici, ma solo crimini e criminali comuni e che nessuna forma di protesta potrà far arretrare di un solo passo il suo governo. Quando le sue parole perentorie formalizzano un salvacondotto indiscutibile per le forze di polizia penitenziaria, impegnate per ordine del governo in una sistematica e feroce operazione di smantellamento della solidità dei prigionieri attraverso ogni forma di violenza fisica e morale. Il baricentro del racconto è costituito dalla figura di Bobby Sands, militante di Provisional IRA di 27 anni, in carcere da quattro in ragione di una condanna a 14 per detenzione di armi e dallo sciopero della fame a oltranza da lui portato avanti per 66 giorni fino alla morte. Seguito da altri nove compagni che faranno la stessa fine prima di provocare uno dei rarissimi cedimenti nella politica di cocciuto cinismo della baronessa Thatcher.

Mc Queen aveva presentato Hunger a Cannes nel 2008 vedendosi assegnare la Caméra d’or, premio per l’opera prima. All’epoca tutti i nostri distributori, data la pericolosità del soggetto, l’avevano prudentemente scansato.
Ma il successo di Shame, protagonista nuovamente Michael Fassbender (Coppa Volpi a Venezia) ha convinto la Bim a rischiare, seppure in ritardo, tenendo verosimilmente d’occhio il terzo film che la coppia sta girando in questi giorni. Non è la prima volta che la vicenda politica e umana di Bobby Sands viene raccontata sul grande schermo, ma Mc Queen va oltre il racconto, trasfondendo nella narrazione tutto il suo talento di videoartista.
Procedendo per accumulo costringe la nostra attenzione a concentrarsi sui dettagli e sui silenzi molto prima di svelare il soggetto del film. La neve che cade sottile sul sudore di un uomo in divisa, le briciole che da un tovagliolo scivolano sul pavimento, le nocche insanguinate di una mano sono informazioni preliminari trattate come quadri, prima di portarci dentro celle lugubri, scure, quasi delle caverne oltre le porte blindate.
Eppure con pareti costituenti singolari opere d’arte, graffiti preistorici aggiornati in una sorta di pop art. Ci mettiamo un po’ a capire che il colore è fatto con gli escrementi dei prigionieri, che i resti di cibo sono brulicanti di vermi, che in cella non c’è niente, ma proprio niente, eccetto un materasso lurido sul pavimento e un bugliolo che viene periodicamente svuotato facendo scorrere i liquami sotto la porta. Non teme l’accusa di essere un esteta dell’immagine Mc Queen accompagnandoci dentro The Maze, illudendoci inizialmente di voler operare per sottrazione quando tra la visione fugace di un manganello fuori ordinanza impugnato da una guardia e una testa lacerata e sanguinante non colloca le immagini del pestaggio. Quando sembra voler privilegiare le atmosfere e le luci azzurrognole e livide, il solo rumore dei cancelli, dei passi, del vociare degli agenti. Quando i particolari di visi e mani, dei corpi nudi e delle rozze coperte che avvolgono prigionieri sporchi e infreddoliti sembrano dover costituire il centro del suo lavoro. Perché poi non ci risparmierà più niente.

Dalla protesta delle coperte e dello sporco, passando per lo sciopero della fame (hunger strike) che consapevolmente supera la soglia del non ritorno, fino alle ultime immagini di solitudine, di morte e di affiorare di memoria (il giovane attore che interpreta Sands da ragazzino gli assomiglia in modo straordinario) mentre la camera a mano barcolla e passato e presente si sovrappongono, Mc Queen non rinuncia a nulla della personale estetica che ritroveremo in Shame, dell’originalità del suo sguardo e della sua partecipazione in ordine al corpo nudo del protagonista, in entrambi i lungometraggi declinato in forme diverse di autodistruzione. Ma riesce a far sì che la sua scelta visiva diventi morale, che i nostri sentimenti siano progressivamente coinvolti in una vicenda di più di trent'anni fa. Che Storia e finzione si fondano in un duro e incontestabile atto d’accusa. Perché non vi siano dubbi si concede il lusso, a metà racconto, di spezzare il montaggio alternato e inchiodarci in un piano fisso americano di 15 minuti sulla conversazione tra Sands e padre Moran, cattolico e indipendentista, seduti a distanza ai lati di un tavolo, in cui sono le parole a occupare interamente la scena. Sono le motivazioni della protesta, il senso della lotta, le ragioni della politica e quelle degli ideali. Il valore della disobbedienza davanti alle prescrizioni ingiuste. L’incardinarsi della coscienza etica prima che politica quando non si è ancora usciti dall’adolescenza. La responsabilità di portare con sé altri giovani soldati di un esercito illegale verso un destino letale. Se valga di più, se sia moralmente condivisibile, morire o vivere per la causa. Dopo i rumori delle ossa rotte, dei corpi pestati contro le pareti, dei manganelli battuti sugli scudi, delle bastonate rabbiose, le ultime immagini sono quelle di un uomo che da solo si consuma in una lenta agonia in una prigione dell'Irlanda del Nord. Il corpo martoriato, la mente che vacilla, brandelli di pietà che affiorano persino tra i suoi carcerieri infermieri, lo sguardo dignitoso e muto dei suoi genitori. Non è il corpo di un eroe, né quello di un martire, ma un corpo che poteva essere il nostro, in quel tempo e in quel luogo. Lasciandoci dentro non l’immagine di un giovane uomo amante della vita che ha cercato la morte per l’indipendenza del suo Paese, ma quella di un corpo oggetto della consumazione di un reato.
Un reato politico.

 
 
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