Il desiderio di cimentarsi con la "Lectura Dantis"

ReadBabyRead #80 del 5 luglio 2012

Dante Alighieri: "Commedia"

5 Luglio 2012


Dante Alighieri


Commedia: Inferno, Canto I; Paradiso, Canto XXXIII


per info su Franco Ventimiglia e Claudio Tesser:



www.letturaealtricrimini.it



Legge: Franco Ventimiglia


Pasolini e la volontà di Dante a essere poeta

In Empirismo Eretico, nella sezione dedicata alla Letteratura, Pasolini effettua uno studio della fortuna di Dante, attraverso un'analisi della sua poetica. 
“L’interesse di queste mie note è solo contemporaneistico e italianistico: esse non sono che un contributo molto particolare alla ‘fortuna’ di Dante in Italia in questi dieci, quindici anni (nella letteratura non accademica né specializzata)” (P.P. Pasolini, "La Volontà di Dante a Essere Poeta", in Empirismo Eretico, Garzanti, Milano 2000).
Come vediamo da questa premessa l’analisi sarà condotta sui binari della innovazione linguistica introdotta da Dante con la sua opera, e i suoi effetti non sulla letteratura italiana seguente, ma direttamente sulla cultura e sui processi comunicativi: la lingua italiana, insomma. 
Anzitutto, nella Divina Commedia Dante ha il merito di essere artefice di un allargamento lessicale che abbraccia non solo il fiorentino della borghesia comunale colta, ma anche “i vari sublinguaggi di cui essa è formata: gerghi, linguaggi, specialistici, particolarismo di élite, apporti e citazioni di lingue estere ecc.” Una scelta, dovuta allo spostamento dell’orizzonte di riflessione verso un livello alto, ovvero l’universo teologico medievale, non solo espressiva ma anche sociale: l’uso di differenti linguaggi, da quelli più popolari e triviali a quelli più aulici, assieme alla potenziale presenza del Discorso Libero Indiretto (su cui ci soffermeremo più avanti) fa sì che il Dante auctor si immedesimi in ogni individuo e di conseguenza in ogni categoria sociale. Al cambiamento del punto di vista psicologico del personaggio che Dante cita, corrisponde quindi un cambiamento anche di costume e mentalità (che, seguendo la lettura marxista di Pasolini, sono necessariamente frutto della condizione sociale): una mimesis totale da parte del padre della lingua italiana nella psicologia e mentalità dei suoi personaggi, una contaminazione tra la sua lingua e la loro. Pasolini cita come esempio il celeberrimo episodio di Paolo e Francesca nel Canto V dell’Inferno, in cui si nota una commistione tra la lingua di Dante con termini mutuati da una produzione di moda (come nota il Contini, citato da pasolini), ovvero la letteratura aristocratica di evasione che ai tempi del poeta fiorentino conosceva molta fortuna. Vediamo ad esempio la preghiera con la quale Francesca si rivolge a Dante (vv. 88-93), infusa da uno stile cortese, quando non stilnovistico:

O animal grazioso e benigno 
che visitando vai per l’aere perso 
noi che tignemmo il mondo di sanguigno, 
se fosse amico il re de l’universo, 
noi pregheremmo lui de la tua pace, 
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Anche le espressioni legate a un mondo più volgare, di periferia, “di gente semplice e plebea, dedita magari alla malavita (insomma quello che, in Italia, Engels chiamava ‘Lazaronitum’” ) (P.P. Pasolini, Empirismo Eretico, op. cit.), sono, come abbiamo già accennato, utilizzate da Dante. Espressioni come “squadrare le fiche” o “fare del cul trombetta” o parole come “dindi” sono comunque mimetiche, non nell’uso del poeta, abozzi di un possibile Discorso Libero Indiretto che è tale non in senso grammaticale, bensì simbolico e metaforico: esso rifiuta infatti esperimenti di eccessiva vivacità, come rivivere tout court in maniera mimetica il discorso altrui. 
Pasolini, rispetto agli altri commentatori di Dante, mette in secondo piano la scelta del volgare come lingua letteraria in luogo del latino ufficiale; piuttosto sottolinea le scelte operate in seno al volgare stesso. Egli infatti reputa che il sommo poeta si impegnava su due fronti: ”quello teorico e ideologico universale dell’opposizione al latino, e quello teorico e ideologico particolare dell’opposizione a una eventuale istituzione conformista del volgare stesso”. Non solo, l’uso del volgare, sempre secondo lo scrittore di Casarsa, è dovuto al fatto che Dante non si trova più in una società “monolitica” quale era quella del Medioevo dell’universalismo teologico-clericale (e che comportava l’uso pressoché esclusivo del latino), ma in una società che permette una partecipazione attiva nel confronto dialettico fra le varie parti politiche che animavano la vita dei Comuni. E seguendo la legge dell’omologia del Goldman, il mondo analitico di Dante, diviso nelle sue varie sfaccettature politico-sociali, produceva un’analoga frantumazione linguistica.

Perciò la posizione da una parte teologico-universalistica del poeta va integrata, secondo Pasolini, con la società in cui viveva, che ormai richiedeva necessariamente una “coscienza sociale”, “senza la quale l’allargamento plurilinguistico non sarebbe stato che meramente numerico, oppure meramente espressivo”. Due punti di vista, insomma, alto e basso, che però in Dante non si escludono a vicenda: egli osserva il mondo da una prospettiva generale e finalistica, ma al tempo stesso analitica, cogliendo ogni singolo caso. 
A questo doppio punto di vista si accompagna poi un duplice registro, individuato da Pasolini, di cui “uno veloce, quasi inespressivamente sbrigativo, quasi brutalmente fattuale”, “nel tempo delle cose”, che corrisponde ad un piano di lettura puramente narrativa, e l’altro “fuori dal tempo delle cose”, “lentissimo, atemporale, che si iscrive in un tempo che non è né quello della lettura né quello dei fatti, ma quello metastorico della poesia”, che si manifesta, ad esempio, nella recitazione a memoria.

Lo scrittore di Casarsa fa l’esempio dell’episodio di Pia de’ Tolomei citato nel Purgatorio (canto V, vv. 130-136): sbrigativo, non lo si comincia che è già finito, ma se riletto o recitato prorompe silenziosamente con “il suo ralenti da epigrafe sublime, il suo casto e quasi mormorato do di petto senza fine”.

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo 
e riposato de la lunga via”, 
seguitò ‘l terzo spirito al secondo, 
“ricorditi di me, che son la Pia; 
Siena mi fé, disfecemi Maremma: 
salsi colui che ‘nnanellata pria 
risposando m’avea con la sua gemma”

La Divina Commedia, nell’analisi offerta da Pasolini, è comunque interessata da una serie di dualità; proviamo ad elencarle. 
Essendo il poema di Dante un’allegoria, allora esso è commistione di narrazione figurativa e narrazione simbolica. 
Lo doppia natura di Dante auctor e agens, protagonista e narratore della vicenda:

“Dante in quanto scrittore rappresenta un mondo metafisico con tutte le sue implicazioni teologiche e culturali, ma Dante in quanto protagonista visita e ricorda semplicemente un mondo di morti”.

Essendo la Commedia un poema, esso, almeno ad uno sguardo moderno, è mescolanza di romanzo e poesia. 
Su quest’ultimo punto è bene soffermarsi. Infatti romanzo e poesia comportano due lingue differenti, che in Dante, per Pasolini, sono inconciliabili: ne sono una prova i personaggi, trattati nella loro “durata” di personaggi concepiti nella prosa: sono colti, insomma, in una splendida sintesi di un punto di vista oggettivante e diremmo sociale, che coglie i loro aspetti morali, psicologici, storici. I personaggi in Dante non sfuggono al razionalismo prosastico dell’autore, che non li guarda da un punto di vista poetico, quindi impressionistico, arbitrario, assolutizzante. Tuttavia “non esiste una norma, nel rebus dantesco, che stabilisca un qualsiasi ordine nell’uso della lingua della prosa e della lingua della poesia nei casi particolari”. 
Ancora una volta il caso di Pia è emblematico: sebbene essa sia razionalmente controllata sotto un profilo psicologico, la lingua della poesia che esprime ciò contraddice quella razionalità, attraverso una serie di allitterazioni anomale, di antitesi difficilmente catalogabili (dis-fecemi, in-annellata, di-sposando), di accenti ritmici stranamente cantati e popolari, quasi da melodramma (“Ricorditi di me che son la Pia”, che è l’endecasillabo di “un canto monodico e monostrofico dell’area centro-italiana”).

La spaventosa unità del linguaggio dantesco (che Pasolini paragona all’unità delle due nature di Cristo, che come il poema dantesco ha dato da discutere all’esegesi) è quasi un unicum nella storia della letteratura, e porta lo scrittore a chiedersi se Dante stesso aveva “la volontà a essere poeta” in quanto tale; e se c’è, dove si può rintracciare. Si può ipotizzare che i punti in cui Dante lo riveli non si trovano né da una parte né dall’altra delle varie serie dicotomiche che prima abbiamo visto, bensì nelle zone di confine tra lingua di poesia e prosa: e notiamo come il plurilinguismo di Dante nel suo caotico universo sia in realtà rigidamente sistemato. Non noteremo mai, nella Commedia accostamenti di due registri diversi, ad esempio fra un termine di natura colto e uno volgarmente plebeo; ogni serie lessicale sta sempre al suo posto, l’espressività in Dante si crea solo per il termine in sé, non per accostamenti o addirittura urti che potrebbero avvenire a livello del potenziale Discorso Libero Indiretto. Dante relega i termini nelle loro funzioni sociali, non li fa suoi utilizzandoli e combinandoli arbitrariamente, non vi è in lui “volontà di creare espressività”. 
In effetti, come suggerisce lo stesso Pasolini, Dante mantiene, nella sua materia, una rigorosa equidistanza tra l’autore e gli infiniti aspetti particolari del suo mondo:

“macro fino alla disumanità per questa scommessa vinta, Dante può ben dire alla fine del suo poema di non avere trasgredito mai di un millimetro questa sua equidistanza dalla materia: unica legge ferrea, spietata, dominante su tutte le leggi particolari che regolano il suo plurilinguismo”.

La “ferrea legge dell’equidistanza” fa sì che Dante sia sempre lo stesso verso i suoi personaggi, ma non solo: il poeta è sempre equidistante da sé medesimo, ossia dai propri sentimenti: “rabbiose contestazioni, contenute pietà, partecipazioni ingenue, severe e perdutamente dolci evocazioni di dettagli dell’esistenza, che siano”. Tutta questo grazie all’incorporarsi di Dante nella sua materia, ovvero rendendosi protagonista del suo poema. I sentimenti non sono mai suoi, ma del personaggio, dell’agens. 
Pasolini conclude azzardando che anche in Dante, come in Petrarca, si può parlare di monolinguismo, di tipo però tonale, dovuto ad “una equidistanza perfettamente invariabile dal proprio atteggiamento interiore e dal proprio rapporto con la realtà, per quanto varia questa sia”, sebbene egli constati che i versi di Dante

“sono, nel profondo, fatti di un materiale infinitamente puro: molto più ‘eletti’ di quelli del Petrarca[…]; anzi, così eletti, da non consentire comprensione se non, in fondo, infinitamente squisita implicante la somma dei più alti sentimenti di ciascuno di noi”.

Luca Santoro


Le Musiche, scelte da Claudio Tesser

Orchestra Staatskapelle Dresden (Direttore Giuseppe Sinopoli, Soprano Alessandra Marc)
Tre pezzi dalla "Suite Lirica": 1. Andante Amoroso (Alban Berg)
Tre frammenti dall'opera "Wozzeck": 2. Atto III, Scena 1 (Alban Berg)

 
 

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un'incisione di Paul Gustave Doré (Strasburgo, 1832 – Parigi, 1883) tratta dalle illustrazioni per la Divina Commedia.

 
 

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