L'oro della Casa.

“E' un film sul contagio, sul desiderio e sul sogno”. Matteo Garrone

4 Ottobre 2012

E' folgorante l'avvio di Reality, ultimo lavoro di Matteo Garrone, Gran Premio della giuria al festival di Cannes. Dall'alto, lunghi piani sequenza e pochi raccordi per farci scendere all'interno di uno scenario in cui lisergico e kitsch si fondono nella rappresentazione delle scene di un (a suo modo) sontuoso matrimonio in una villa monumentale. Carrozze, cavalli, livree, stucchi, colombe che si levano in volo. Primo passo di un viaggio garbatamente allucinogeno che mira a farci muovere da una realtà “vera” per approdare a quella “finta” della Casa del Grande Fratello prima di riportarci a distanza di sicurezza. Badando bene a non superare le soglie dell'eccesso Garrone utilizza il grottesco e l'onirico di Fellini, la napoletanità ottimistica di De Filippo, l'amarezza e il cinismo di Visconti, l'eleganza leggera di De Sica per comporre un racconto morale sullo stato della capacità di penetrazione degli strumenti di modificazione del costume usciti - e materialmente concretizzatisi - dall'incubo orwelliano. Lo fa con una delicatezza e moderazione a volte persino eccessive, con evidente affetto sia per i suoi maestri che per i suoi personaggi, giocando a ricollocare continuamente il confine tra fiaba e realtà. Ma è una fiaba nera quella in cui entriamo, è un percorso di perdizione quello in cui scivola il protagonista quando diventa preda del contagio.

Prendendo spunto da fatti realmente accaduti Garrone è scaltro nell'aggirare la trappola del film di denuncia e di impegno sociale (troppo pericoloso?) per raccontare la sostituzione dei bisogni da parte dei desideri. Narrando di come può il sogno imporsi drammaticamente sulla realtà quando illude di poter segnalare nel modo più alto la prova indiscutibile della propria esistenza in vita: l'appartenenza al mondo televisivo. Di come la perdita di identità sia elemento imprescindibile per completare lo sdoppiamento che porterà a diventare un eroe moderno, consacrato sull'altare della fiction. Perché il Grande Fratello non sta solo lì nella Casa. Non visto spia per controllare che lo sdoppiamento sia portato felicemente a termine prima di accoglierti alla sua corte. Facendoti passare dai luoghi terreni della tua esistenza qualunque - che l'autore costruisce con gli stessi artifici scenografici del teatro di Eduardo - attraversando i non luoghi della modernità come i centri commerciali, gli outlet e gli aquapark, per spingerti alla scalata di quella realtà da te stesso ridisegnata secondo le aspettative dei sogni indotti dal contagio. Il luogo dell'appagamento e della felicità. Il paradigma orwelliano è ribaltato. La paura è quella di non essere spiati. Di restare soggetti anonimi senza meta. Senza Casa.

L'elasticità di pensiero, quando non la spinta oggettiva, della variopinta umanità che ci circonda, diversamente esposta e diversamente reagente al contagio, si fa complice innocente e inconsapevole dell'espropriazione della nostra identità. Che pure nella vulnerabilità al morbo è identità complessa, snodata tra famiglia, lavoro onesto, piccole truffe “necessarie”, confortata da moderata agiatezza. Il ribaltamento trova conferma estetica nei fondali di cartone che caratterizzano la realtà del quotidiano del protagonista, straordinario attore della Compagnia della Fortezza di Volterra. Mentre la Casa è proprio quella “vera”, quella sciaguratamente edificata negli spazi di Cinecittà. Sostenuto dalla sua provenienza dalla pittura Garrone maneggia personalmente la macchina da presa lavorando continuamente di cambi di tonalità, di passo, di ricerca della suggestione visiva. La declinazione dell'agire degli addetti alla Gomorra televisiva è rigidamente limitata alla sue dinamiche di cortese e asettica professionalità, all'affascinante vuoto di valori che esprime. Una volta composto il mosaico di fondo lo sguardo si restringe sul protagonista e sulla sua involuzione paranoica, sul desiderio sognante di smarcarsi dalla antica precarietà della sua gente, concretizzandosi in un intrigante ibrido post neorealista e post pasoliniano. Anche se per chi scrive la suggestione maggiore - forse per una sorta di deformazione professionale - è costituita dalla vita “reale” del protagonista Aniello Arena, detenuto nella casa di reclusione di Volterra. Nel suo fascicolo personale c'è scritto: fine pena mai. La sua Casa è quella. Per sempre.

 
 

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