Venerdi 29 Marzo 2013

Baustelle Live Report

Teatro Geox - Padova

2 Aprile 2013

I.   Di un gruppo in perenne evoluzione

Gli annali dello Sherwood Festival ci restituiscono due date, 2008 e 2010, per ricordarci le due “calate” padovane del trio originario di Montepulciano (faremo finta che la prima storica, all’epoca della “Moda Del Lento”, in realtà non esista). Vennero portati in giro per l’Italia due dischi, “Amen” e “I Mistici Dell’Occidente”, fra di loro diversissimi per densità, caratura e strutturazione: il primo, mastodonte di cultura pop alta e bassa, di canzonetta e di ethio-jazz, di struggenti dagherrotipi ed anthem (ahimè) impossibili a rimodularsi; il secondo, decisamente più contenuto nel minutaggio, dal respiro eminentemente cinematografico, dal taglio melodico meno ricercato, decisamente meno riuscito. Due dischi, soprattutto “Amen”, con i quali i Baustelle si apprestavano a scrollarsi di dosso gli ultimi residui di quel situazionismo particolaristico “indie” sotto la cui ala erano nati, erano stati svezzati e da cui, in occasione del passaggio a major con l’ottimo “La Malavita” (2005), contavano di emanciparsi. Quale la ragione, a latere, di questa scelta? Difficile anteporre, a tutto, il desiderio di maggiore notorietà, che pure è arrivata, col suo carico di inevitabili effetti collaterali… Nella mente di Francesco Bianconi (e, in misura minore, di Rachele Bastreghi e di Claudio Brasini, vedremo il perché) è da sempre girato un meccanismo la cui sola presenza morfematica induce a storcere il naso: l’ambizione. L’ambizione di trasformare il gruppo cult del “Sussidiario” nel tutto-e-niente della “Moda Del Lento”, nei popolari poeti maudit de “La Malavita”, nei citazionisti sentimentali di “Amen” e nei retromani incalliti dei “Mistici”. Fino all’ultimo passo, quello decisivo, il coronamento di una vita spesa ad inseguire passioni, manie, fantasmi. Fantasmi, esattamente. Gli spettri del tempo e dei segni indelebili del suo passaggio, si potrebbe chiosare, ma il pantagruelico, sesto disco dei Baustelle è molto di meno e molto di più: uno zibaldone che raccoglie ricordi, amori, frammenti di giovinezza e sprazzi di maturità, l’attaccamento alla canzone italiana e al suo immaginario eminentemente onirico, gli archi e le chitarre, gli stornelli di borgata e la musica classica, il cinema e la letteratura. Un macigno di Sisifo, un volo di Icaro o, chissà, il determinante filo d’Arianna.

II.    Cinque anni dopo

Mi sono rifiutato di vedere i Baustelle dal vivo nel 2010 perché, lo confesso, troppo grande era stata la delusione dell’appassionato appena due anni prima. Ancora troppo impegnativo da rendere al meglio un disco elaborato come “Amen”, forse, per le capacità tecniche e la tenuta fisica di un gruppo da sempre recalcitrante nei confronti delle grandi platee. Fatto sta che, nonostante signori innesti come Nicola Manzan alle chitarre e Sergio Carnevale dietro le pelli, l’esordio dei Baustelle sul Main Stage dello Sherwood fu un significativo buco nell’acqua, tra stecche improvvise, svisate incontrollate, code raccolte in blob amorfi ed una scarsa interazione tra i vari membri aggiunti. Peggio, a quanto si poteva leggere in giro per il web in quei mesi, non certo un’isolata eccezione. Un peccato. Saliva ancor più la curiosità, allora, di rimettere alla prova le proprie perplessità, alla luce di un “Fantasma” dove il nucleo originario del gruppo veniva dilatato sino ad inglobare le peripezie strumentali di un’intera orchestra, quella di Varsavia. Come reggere l’impatto schiacciante di dover coniugare il proprio senso melodico, il proprio orizzonte con i destini di altre venti, trenta persone, di decine di strumenti differenti, di cori e sovraincisioni, di armonie complesse e di sfumature infinitesimali?
La si pensi come si vuole – snaturamento inaccettabile dell’”anima” del gruppo, esperimento riuscito a metà, prova di forza straordinaria ed atto di coraggio sublime –, ma “Fantasma” è un disco che richiede, ed assorbe, moltissima attenzione. Attenzione per come i brani (o, in senso esteticamente classico, i movimenti) sono legati tra di loro, in un continuo gioco di rimandi metartistici e metatestuali. Attenzione per come gli strumenti interagiscano tra di loro, in un quadro apparentemente statico che, in realtà, rivela un brulichio sotterraneo dotato di grande forza dinamica. Attenzione per come i nuclei melodici si nascondano, a tratti, dietro gli steroidi degli arrangiamenti, perdendo talvolta forza, ingigantendo altrove le prospettive. Attenzione, infine, per il recitar cantando, ciò di cui si predica, la cura estetizzante nella scelta delle parole e nella loro funzionale disposizione, nella disperazione che si apre a seguire pedissequamente l’evoluzione letteraria interna del disco, solo raramente mitigata da un senso di speranza che è, prima di tutto, sottile derisione, umorismo del declino, affezione al secolare gioco del contrasto.
I Baustelle del 2013, infine. Tutto un altro gruppo, con o senza orchestra. A Padova non va in scena il computissimo Enrico Gabrielli delle prime uscite, straordinario musicista proteiforme a dirigere, con piglio d’accademia, il riflesso delle proprie stesse orchestrazioni su di un ensemble, quello polacco, tanto prestigioso. Vi è invece la più classica delle formazioni allargate, tra selve di chitarre elettriche ed acustiche, tromba, sax, flicorno, organetto, flauto traverso, basso, batteria, tastiere e chi più ne ha, più ne metta. Tutti, o quasi, sono seduti, immobili al centro di un palco persino troppo grande, in attesa religiosa che la musica scorra e si riveli da sé. Lo scarto, rispetto ai ricordi, è chiarissimo, evidente: lì c’era un gruppo timoroso della propria ombra e timorato del pubblico, qui un complesso senza macchia e senza paura, che in rigida immobilità affronta una platea inevitabilmente meno esigente – paradossale, se si pensa alla difficoltà concettuale maggiore su cui è stato imperniato “Fantasma”… – ma estremamente più numerosa, passionale.

III.    Le canzoni

La novità sostanziale è che non ci sono novità. Tra la riproduzione disco e la riproduzione live dello stesso oggetto, le differenze sono così minime da risultare impercettibili. Le alchimie tra i musicisti sembrano tarate su di una sola, tacita legge: fai quel che devi fare, e tutto andrà bene. Certo, tutto va bene perché in questa maniera – e, specialmente, con questo nuovo piglio – diventa davvero difficile sbagliare. Se l’assenza del corposo apparato d’archi viene esperita da sottili correzioni in corso d’opera e preziose registrazioni in sottofondo, tutto il resto è così fedele all’originale da sfiorare la calligrafia: in Fantasma (Titoli Di Testa) – che dell’Uccello dalle piume di cristallo è omaggio, e non pura imitazione – viene facile catapultarsi nella Roma in marcescenza dei primi misteri argentiani, laddove invece il recital de Il Futuro prima, il passo marziale con chorus angelico incorporato de Il Finale poi (accostamento voluto?) evocano epoche diverse, malinconie e dolori sparsi nel tempo, da qualche parte tra Se Telefonando e Il Cielo In Una Stanza. Francesco Bianconi è il motore naturale della macchina Baustelle, e non solo perché sia seduto esattamente al centro del proscenio, con Brasini alla sua destra e Rachele, accoccolata dietro un lucido pianoforte a coda nero, alla sua sinistra: per di lui passa la quasi integrità delle linee vocali – assai migliorate rispetto al passato, bisogna dirlo – ed il mood interpretativo dei brani. La lunga Diorama è uno spaccato cantautorale di grande potenza, che si propende in arzigogoli strumentali funzionali a decorare la passeggiata del protagonista nel “museo di storia naturale”: poco meno che impressionante Nessuno, episodio qualitativamente minore, i cui cori vengono riprodotti, con perfezione maniacale, da una Bastreghi che si merita l’ovazione riservatale. Viene suonata persino L’Orizzonte Degli Eventi, interamente strumentale, che ricrea tangibilmente una patina d’umore spettrale, ghost story priva di scheletro narrante che ondeggia, inquieta, tra vibrafoni e xilofoni, ricorsive volute di pianoforte ed apparati sfumati di fiati. A voler muovere una critica, vi è sicuramente da annotare la totale mancanza di guizzi, di sussulti, di sorprese, percepibile sin dal primissimo attacco, ma che inizia a farsi pesante col passare dei minuti. La piacevolezza regna sovrana, e questo è quanto. La maggioranza dimostra di sapersi accontentare.

IV.    Cosa rimane di noi…

Il punto di svolta del concerto è quando Bianconi, per l’inizio della seconda parte, riveste i panni del “ragazzo di periferia” (che non è più) e alza il sipario su Cristina, fenomenale saggio di bravura compositiva, parata bandistica che a metà s’avvita su sé stessa in un elegante trotto doo-wop. Rachele Bastreghi, non ci si stanca mai di sottolinearlo, è sempre più bella: di una bellezza ipnotica, non convenzionale, indifferente al passare degli anni. Eppure il suo ruolo, nell’economia di “Fantasma”, non è più quello di compositore alla pari, di alter ego gentile del compare maschile: oggi appare, e suona, più come comprimaria di lusso, come contorno alla portata principale, musicista dalle grandi doti inespresse. Tre sono i brani dell’ultimo concept dove si ha l’occasione di sentirla all’opera. Radioattività è un lento cullato su strenne di flauti, senza grande mordente: Monumentale è la vena romantico-decadente dei Baustelle, un organetto di Barbiana che intona l’amore anticonformista tra i “divani fondi come tombe” ed i versi strappati a Montale; ancora, La Natura è la melodia pop più bella del disco, ingentilita dallo svolazzare finale di archi e fiati a ricreare atmosfere mahleriane, ma i salti armonici e le difficoltà di stratificazione strutturale ne strozzano un po’ l’enorme potenziale. Decisamente meglio, tuttavia, quando la sua voce viene lasciata librarsi sopra ad episodi d’annata: splendido, ad esempio, l’inciso in solo – con un Brasini essenziale, westernato surf, il Lee Hazlewood tarantiniano di una moderna Nancy Sinatra – de L’Aeroplano, bellissima in questa versione nuda, e bello anche il call&response con Bianconi sulla classica Col Tempo del grande Leo Ferré, reso celebre dall’interpretazione di Patty Pravo.
Già, Claudio Brasini… l’altro grande assente dei “nuovi” Baustelle. Per quanto “Fantasma” sia un lavoro essenzialmente barocco, ai blocchi di partenza ci si sarebbe comunque attesa una rifinitura chitarristica più pronunciata. Il tocco del “terzo”, invece, è annacquato, a tratti inconsistente, pressoché insignificante nel marasma di nuovi colori strumentali. Non bastano lo sfarzo opulento – e un po’ kitsch, a veder bene – di Fantasma (Titoli Di Coda), o le ragnatele sotterranee della già citata La Natura, o gli strali funebri che scendono sull’esecuzione un po’ fiacca del singolo La Morte (Non Esiste Più), o ancora il riff inconfondibile de La Guerra È Finita, nel bis, che scatena l’orda dei fedelissimi ad abbandonare ogni cerimoniale per spingersi fin sotto il palco: pare proprio che il futuro del gruppo non passi per le chitarre, e nemmeno per quella digressione di cantautorato “colto” e di arpeggio liturgico che aveva contaminato alcune sezioni importanti del precedente “I Mistici Dell’Occidente”. Prova ne sia una versione irriconoscibile per sola voce e tromba, finanche paradossale, dell’anthem Charlie Fa Surf (trascurabile), meccanismi che avanzano senza ulteriori spinte elettriche (l’interessante Maya Colpisce Ancora, con Rachele ancora relegata ai cori, il gravoso peccato intellettualoide di Contà L’Inverni) ed una chiusura telefonata, con Andarsene Così, dove la propulsione si accende più per accostamenti sonori, che per reale fisicità.

Tutto sommato, può funzionare lo stesso. Ancora ben lontani dal dispensare alta e snobistica cultura, i Baustelle si fanno ampiamente perdonare per una parabola, evolutiva, decisamente refrattaria alla staticità. Se i giovani disillusi del “Sussidiario” sono morti e sepolti, nondimeno parrebbe ancora interessante assistere al disintegrarsi della cometa…

 
 

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  • Baustelle @ Gran Teatro Geox
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