Ciao Carlo

Da ragazzo dei Settanta a uomo di Cinema

23 Gennaio 2014

Carlo Mazzacurati è morto ieri, mercoledì, all'età di 57 anni, dopo una lunga malattia.

Carlo era un ragazzone biondo, i capelli lunghi e un sorriso insaccato dentro l'eskimo di ordinanza. Nei primi anni Settanta era uno dei medi, quando la scuola ribolliva sul serio. Era nella piazze e nei cortei. Era uno di noi. Nell'epoca in cui per far sapere le cose usavi il ciclostile e i datze bao, i fascisti stavano nelle fogne e gli Stati Uniti in Vietnam. Era sempre gentile e disponibile. Presente. Quando il gioco ha iniziato a farsi duro ha cominciato a perdersi negli archivi cinematografici sterminati di Piero Tortolina e a capire cosa avrebbe voluto fare da grande. Da Padova se ne è andato a Bologna, uno dei primi studenti del Dams. E poi a Roma, perché il Cinema sta lì.

Carlo ha fatto tutta la trafila, ha risalito la corrente: scrittura, televisione, sceneggiatura. Documentari, sempre, fino all'ultimo. Ha inseguito una passione ed è riuscito ad afferrarla. E' diventato uno dei registi italiani più amati dal pubblico. Ma è rimasto pudico e schivo come agli esordi. Come è stato un po' tutto il suo cinema. Fatto di sottrazioni e lievità, di storie raccontate sottovoce. A chi lo accusava di non usare le unghie replicava che graffiare non stava nelle sue corde. Del suo primo lungometraggio distribuito, Notte italiana del 1987, conservo una battuta che per me è diventata un principio fondamentale, pronunciata dalla zingaro Bobo Citran: “meglio amico con difetti che no amico”. De Il toro del 1994 una conversazione-intervista di ore con lui e Bobo: Leone d'argento al film e Coppa Volpi a Citran. Mentre Bobo rideva di quanto fosse terrorizzato da quel grosso animale, Carlo mi raccontava come sul set “cercare di costruire ogni volta una specie di famiglia è per me indispensabile perché si crea un clima, un'atmosfera da cui scaturiscono le emozioni”. Era uno che voleva entrare in relazione con la gente attraversando, nel farlo, “un'infinita difficoltà e una grande attrazione” e questa sorta di ossimoro veniva trasferito nella sua cinematografia.

In famiglia è rimasto, apparendo poco, lavorando molto. Non sempre ripagato dallo stesso successo, ma sempre portatore di uno sguardo originale, non omologabile, negli ultimi lavori un po' più stralunato. Realismo sociale attento alle trasformazioni del costume e sempre contaminato dalla poesia. Apparire poco non gli aveva impedito di essere il primo firmatario di un appello a che il cinema Mignon di Padova potesse tornare a ospitare un pubblico e dopo alcuni documentari (dai grandi vecchi della cultura veneta all'Africa) era tornato al cinema di finzione. Ci parlava di lui quest'estate allo Sherwood Festival, con grande affetto, Valerio Mastandrea, protagonista dell'ultimo La sedia della felicità, previsto in uscita ad aprile: un'estetista e un tatuatore in cerca del colpo di fortuna. Della malattia purtroppo sapevamo e non era sfuggita la sua sofferenza all'ultimo Torino Film Festival, che gli attribuiva il Premio alla carriera. Ora tocca salutarsi. Ciao Carlo, tra i tanti premi ricevuti metti anche quello alla tua 124 familiare: Prima Macchina del Movimento.

 
 

di Marco Rigamo

Foto di copertina: Roberto Baldassarre

 
 
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