Burgermania_1 - Night Beats

di MonkeyBoy, Vinylistics

7 Aprile 2014

Ormai dovreste saperlo e se non lo sapete ancora ve lo dico: da un po’ di anni sono diventato un fottuto retromaniaco ed in gran parte questo lo devo alla benemerita Burger Records, ai suoi artisti, agli eventi live che organizza e in generale alle sue modalità così retrò. La label californiana di Lee Rickard e Sean Bohrman pubblica materiale quasi solo su cassetta, per cui potrete immaginare che sia qualcosa molto di nicchia e che gli artisti che collaborano con essa abbiamo contratti anche con altre case discografiche ben più note e potenti. Ma è lo spirito della Burger Records che mi fomenta, il loro modo di vivere la musica e tutto ciò ad esso connessa. Insomma, sono dei regaz molto fuori di testa e cazzoni ma irresistibilmente coinvolgenti e stilosi nel loro essere fondamentalmente dei nerd, ma con una coolness che levati. Inizia oggi un ciclo in tre parti su altrettante band che gravitano in ambito Burger, perché suonano ai Burgerama tour, perché hanno pubblicato qualcosa su cassetta o sono stati in una puntata di Burger Tv o ancora perché sono anche solo amici di amici che seguo su Instagram.

Danny Lee Blackwell nasce e cresce a Dallas nel cuore dell’America rurale e passa la sua adolescenza ascoltando il blues del Texas e la cosiddetta Austin’s psychedelic music degli anni ’60. In un momento non precisato della sua vita per un motivo non chiaro prende stivali e cappello da cowboy e si trasferisce a Seattle (evidentemente troppo tardi per subire l’influenza del grunge) dove nel 2009 incontra tale James Traeger da poco trasferitosi indovinate da dove? Ma ovviamente da Austin, Texas. Del perché due texani si conoscano dall’altra parte degli States a più d 2500 km di distanza da casa loro è un mistero che nemmeno Giacobbo, fatto sta che proprio nella città dello stato di Washington i due fondano un gruppo chiamato Night Beats, in omaggio al celebre album di Sam Cooke. Poco più tardi si aggiunge Tarek Wegner che già vive a Seattle e che di mucche e cavalli non ne sa una cippa. Detto delle influenze musicali di Blackwell, i tre mettono sul tavolo tutta la musica con cui sono cresciuti, gente come The Zombies, Rolling Stones, 13th Floor Elevators, Electric Prunes, Golden Dawn mentre Traeger si dice addirittura fan dei Last Shadow Puppets di Alex Turner e Miles Kane. Pensa te. Tutto questo per dire che la neonata band ha delle radici musicali della madonna ed è quindi naturale che inizino a suonare cover di ‘sti califfoni del passato un po’ qua e un po’ là, riscuotendo un discreto successo.

Il 2010 inizia con svariati tour per tutto il nord America, un intensivo periodo on the road che cementa l’affiatamento del trio nei live e che comunque fa sempre esperienza. Capitale che viene subito investito nel primo EP della band, "The H-Bomb EP", pubblicato niente meno che per la Trouble In Mind di Chicago (Jacco Gardner, The Limiñanas) e che li fa uscire dall’anonimato grazie ad un paio di brani di notevole fattura.
Tornano in tour ma a questo giro accompagnano dei pezzi grossi come The Black Angels (UK, Europa, US), Roky Erickson, gli stessi Zombies, Jesus & Mary Chain, The Strange Boys, Black Lips e Growlers, questi ultimi due già gravitanti in area Burger. Si può affermare che quello sia stato l’anno della svolta per i Night Beats, tant’è che a settembre il loro EP è in cima alle classifiche di molte college radio degli USA - e ciò per un gruppo di ventenni con all’attivo giusto 4 canzoni in croce è perlomeno un buon inizio. Lee Blackwell suona anche in un altro gruppo insieme a Christian Bland dei Black Angels (texani purissimi anch’essi), chiamato The UFO Club e proprio uno split tra questa band e i Night Beats porta nel 2011 ad una pubblicazione per l’etichetta Reverberation Appreciation Society, emanazione discografica del ben più noto Austin Psych Fest. Facciamo un breve salto temporale in avanti di pochi mesi e il 28 giugno esce, sempre via Trouble In Mind e su cassetta via Burger Records, l’omonimo album di debutto del nostro trio preferito. E qui comincia la storia che conta. E’ un esordio violento che trasuda l’urgenza tipica di chi ha tanto da dire e cerca la maniera migliore per farlo. I Night Beats hanno chiaramente scelto di incorniciare al meglio l’estetica garage fondendo psichedelia, blues, folk e addirittura qualcosa di soul in un album che cattura e modernizza quasi alla perfezione quell’aura allucinogena e satanica di band come 13th Floor Elevators e Golden Dawn, di cui accennavo sopra. Non ci sono vie di mezzo nell’espressione di sé e mettere un brano come Puppet On A String in apertura è un’evidente dichiarazione di intenti, onesta e schietta. Il citazionismo ovviamente dilaga per tutti i 43 minuti del disco, ma ogni cosa è realizzata con tale dovizia e cura dei particolari che ascoltando "Dewayne’s Drone" (brano dedicato a Dewayne Pomeray, un giovane senzatetto di Seattle immortalato nel docu-film Streetwise del 1984) non si fa nemmeno troppo caso alla batteria simil Tomorrow Never Knows, apprezzandone invece la maggiore educazione e precisione. Il sound si basa principalmente su una chitarra furiosa e infuocata a cui si aggiunge una sezione ritmica tagliente, col notevole risultato di mutare accordi e progressioni piuttosto convenzionali in estensioni (potremmo anche dire esplosioni)sonore grandiose. L’aggressiva e rumorosa "Ain’t A Ghost" è costruita su uno dei più elementari giri di batteria che si possano mai pensare ma fa capire come la semplicità strutturale delle canzoni non sia indice di
limitatezza compositiva, piuttosto venga continuamente ricercata ed
ottenuta in nome della piena e seria devozione al garage di metà anni
’60. La voce di Blackwell, il registro vocale che usa senza ritegno, è
quanto di più vicino al mood della Summer Of Love si possa immaginare, e
funziona dannatamente bene in mezzo al resto. Non mancano episodi davvero notevoli, come "War Games" (che ha un andamento da western morriconiano e che riesce ad unire un vibe alla "Paint It Black" con le ritmiche moderne dei Last Shadow Puppets), la byrdsiana "Meet Mr. Fork", "High Noon Blues" per finire con "The Other Side", il brano più lungo dell’intero set ed esempio di come anche i testi, certamente non facilmente approcciabili e comprensibili, si fondano perfettamente con le musiche, dando quel senso unico di sorpresa, apertura mentale, disperazione e abbandono che da qui in poi diventa marchio di fabbrica dei Night Beats.

Il 2012 trascorre senza momenti notevoli per la band ad eccezione della pubblicazione di un singolo, "Messiah", per il Volcom Vinyl Club a giugno. Nel 2013, a luglio, la Reverberation Appreciation Society, che evidentemente non li ha mai dimenticati, annuncia con grande orgoglio l’uscita del sophomore del gruppo, che si chiama Sonic Bloom ed uscirà il 24 settembre dello stesso anno con annessa versione cassettata sotto l’egida della Burger Records. Si nota immediatamente l’estensione del sound del debutto verso qualcosa di più complesso e in generale più avventuroso, con qualche rischio calcolato che la band si prende qua e là. I riferimenti stilistici sono grosso modo gli stessi, la Nuggets-era la fa da padrona e da un punto di vista strutturale le canzoni sono mediamente più lunghe e ampie, con ritornelli e melodie più immediati e fruibili anche al primo ascolto. L’inizio è devastante, con "Love Ain’t Strange (Everything Else Is)", un pulsare jangly che prima cattura e poi si avvita in una spirale tempestosa di chitarre supportate da un drone di basso che porta la canzone verso un calmo finale, e "Sonic Bloom", un qualcosa vicino a J. Spaceman con una grande sezione ritmica e dove voce e chitarra si fondono in una vibrante eco che sembra venire da altre dimensioni. Il primo momento di rottura si ha con "Outta Mind", di sicuro uno dei migliori momenti dell’album, dove i Night Beats fanno il verso ai Velvet Underground suonando ballabili ed allo stesso tempo sporchi e cattivi. C’è qualcosa degli Allah-Las qui, come anche in "Real Change" che col suo grandioso, tiratissimo finale di chitarra anticipa "Satisfy Your Mind", altro pezzaccio altra semicitazione (questa volta ai primi Rolling Stones), in pratica un piccolo gioiellino acustico. "Catch A Ride To Sonic Bloom" prende in prestito il sitar di George Harrison prima di fiorire in un trip sperimentale che lentamente si dissolve in se stesso e chiude una prima parte enorme per ritmo e qualità. Se ci si aspetta un secondo tempo più riflessivo, "The Seven Poison Wonders" col suo giro di basso alla Taxman ci fa capire come la band non abbia intenzione di mollare la presa ma di tenere lo stesso groove. Quello che emerge è una grande omogeneità sonora a fronte di una altrettanto grande varietà di stili che vengono ricercati e trovati. Così l’accoppiata finale "At The Gates + The New World" lascia forse intravedere gli orizzonti futuri del sound dei Night Beats; là dove la prima è una specie di improvvisazione in stile jazz con piano, tromba e percussioni da Blue Note, la seconda, che è la canzone più lunga del disco, è un’escursione sonora quasi una jam dove la band è assolutamente a suo agio nel consegnarci un finale memorabile, molto psych. I tre regaz non inventano nulla sia chiaro ("As You Want" viene filata dagli anni ’50, "The Hiddden Circle" dai ‘60), ma fanno quello che fanno con grande classe, solita devozione e innata precisione. C’è grande sapienza tecnica e musicale ovunque nella loro musica, sono consapevoli e non perdono mai il controllo anche grazie ad una produzione minimale che permette di catturare le vibrazioni più intime del loro suono. A supporto del secondo LP, i Night Beats si imbarcano in un nuovo tour che tocca nord America, Europa ma anche Israele e Sud Africa. Visto che il live-side è molto importante, non fanno mai mancare la loro presenza negli eventi dal vivo della Burger, facendo muovere i culi flaccidi degli americanos col loro sound tagliente e fracassone. Hanno anche in piedi parecchi progetti paralleli; oltre agli UFO Club, Blackwell se ne beve un paio con Cole Alexander e Joe Bradley dei Black Lips, con Curtis Harding, e con Bret Hinds dei Mastodon nel supergruppo Night Sun. Tarek Wegner ha un side-project chiamato The Drug Purse, mentre con Woody Brenton dei Fuzzy Cloaks e Mike Ni è nei The Bermudas. All’inizio di "Love Ain’t Strange" Danny Lee Blackwell canta “I’ve seen the future, I’ve seen the past” e non riesco ad immaginare parole più profetiche per descrivere l’atmosfera di cui è imbevuta la loro musica. Se vi siete sempre sentiti un po’ frustrati per non avere vissuto il decennio a cavallo fra gli anni sessanta ed i settanta come i vostri padri, i Night Beats from Seattle sono la band che fa per voi, perché hanno tutto quello che cercate in un’esperienza lisergica e psichedelica, perché possono essere la vostra droga del nuovo millennio.

(Tramite Vinylistics)

 
 

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