Con la collaborazione di Piter Perbellini e Daria Andreetta

Cosa posso mandarti dal posto in cui arriverò?

Io sto con la sposa. Racconti del regista Antonio Augugliaro e della sociologa Valeria Verdolin

17 Ottobre 2014

Scrivo un po’ di getto dopo la serata di ieri per non perdere la temperatura dell’incontro con Antonio Augugliaro e Valeria Verdolini rispettivamente regista e sociologa che hanno lavorato al film Io sto con la sposa.

La sala del cinema Giorgione di Venezia era eccezionalmente al completo e la prima cosa che mi chiesi fu per quale motivo ognuno di noi fosse lì.

Sì, perché molti film raccontano d’emigrazioni da paesi in guerra, ma in questo caso esistono almeno tre punti di vista: quella delle tragedie, dei sogni e delle lotte dei cinque personaggi palestinesi siriani, arrivati in Italia in cerca d’accoglienza, quella di un gruppo di altre diciotto persone che decidono di non essere spettatori passivi, e quella dell’illegalità che attraversa ognuna delle loro storie.

Perché un po’ si sa che le chiacchiere volano e le storie si diffondono veloci, e che a volte gioca un ruolo primario l’inquietudine di non perdere il nostro protagonismo all’interno degli eventi, seppur da spettatori, per poterne dire, citare, non essere esclusi dalla cosa di cui tanto si parla in questo o quel momento, per segnalare una presenza. A volte ancora si tratta di un incontro assolutorio fra la nostra coscienza e loro: basta avere il groppo in gola per sentirci meno colpevoli.

Tutti questi pensieri mi attraversavano ma c’era un altro aspetto che m’incuriosiva. In che modo un atto politico, come la stessa Valeria lo definisce, di cui viene ultra dichiarata l’illegalità, può essere assorbito come fatto artistico dentro un sistema iper-regolamentato, burocratizzato e ampiamente accettato come quello cinematografico ma anche all’interno di molto pubblico che vede nella legge le basi di una società civile? Una domanda che rimane aperta ma che per la prima volta può essere indagata anche dentro questo settore.

Non racconterò qui del film per il quale rimando al sito e alla visione. Riporterò invece una parte dell’incontro avuto con loro dopo la proiezione e finito piacevolmente nel piccolo bar di Masud vicino a Fondamenta Nuove accompagnato da vino bianco aromatizzato allo zenzero e saporiti samosa.

Sul viaggio...

Valeria - Chiamare Io sto con la sposa un film è riduttivo, non perché si tratta di un documentario e non di un film ma perché è un progetto politico e questo per noi è stato chiaro fin dalla partenza, è stato il modo con cui abbiamo costruito questo progetto e il modo con cui è stato finanziato. Dietro c’è un’urgenza e dal momento in cui tutti noi ventitré siamo stati coinvolti e invitati a questo matrimonio posticcio ci siamo ritrovati nell’idea che la misura fosse colma, che ci fosse stato un limite. Il progetto inizia a farsi concreto nel mese di novembre 2013 dopo i due grandi naufragi del 3 e del 11 ottobre, due delle più grandi tragedie del Mediterraneo non solo degli ultimi anni ma nella storia dell’emigrazione.

C’era quello, c’era la guerra in Siria, c’erano tante questioni che avevano incrociato le nostre vite in maniera diversa, ognuno di noi è arrivato portando la sua storia e il proprio desiderio di voler far qualcosa, introducendo in questo progetto il tema della soggettività.

Perché le sale sono piene con Io sto con la sposa? Cosa cambia? L’immigrazione non è un tema nuovo, in Italia è dal ‘92 che ci si occupa del tema dell’immigrazione, inoltre è stata raccontata da molti film, da studiosi.
Quindi, cosa fa la differenza? Forse l’idea di cambiare prospettiva.
Dove ci posizioniamo rispetto l’immigrazione?
Noi questo viaggio l’abbiamo fatto con loro e rischiavamo con loro. Nella diversità, perché ovviamente i nostri rischi non erano proporzionati ai loro, perché noi rischiavamo conseguenze penali ma la nostra vita, la nostra storia, i nostri documenti non erano a rischio.
Cinque persone, che sono diventate cinque amici, hanno scelto noi come strumento per costruire il loro sogno, come strumento per raggiungere la possibilità di avere dei documenti perché alla fine di questo si tratta.

La Svezia è una destinazione ideale perché lo status di rifugiato permette di avere più possibilità rispetto all’Italia e ad altri paesi europei.
Hanno scelto noi, non solo perché gli è capitato, ma anche perché sentivano l’urgenza che il loro viaggio non fosse un viaggio individuale e attraverso il quale poter raccontare cosa fosse richiesto a un pezzo di mondo per poter viaggiare, per potersi muovere per poter scegliere dove andare.

Antonio - Realizzare questo viaggio ha significato realizzare un sogno che vive con il film. Io guardo le immagini e penso a che bello sarebbe il mondo fatto così. Moltissime persone durante il viaggio ci hanno ospitato nelle proprie case, altre erano dispiaciute perché non ce l’hanno fatta ad accoglierci. Un’Europa così aperta sarebbe davvero un sogno.

(…) L’idea è stata quella di dare tantissimo nell’occhio per destare meno sospetto. Fra le varie cose chiedemmo il permesso per girare un film dentro la stazione di Copenaghen così da ottenere un pezzo di carta che giustificasse la nostra presenza lì con le telecamere nel caso di problemi. L’unica volta che un poliziotto si avvicinò a noi, fu per farci le congratulazioni per il matrimonio proprio in stazione centrale a Copenaghen.

Devo dire che ha funzionato, chi ci vedeva da fuori aveva davvero l’immagine di un set cinematografico di livello e di un matrimonio importante. Non dimenticherò mai il giorno in cui siamo andati dal parrucchiere per trasformarli, si vede all’inizio del film, conciati com’erano i primi giorni dopo notti in strada, nessuno gli avrebbe voluti, invece noi siamo riusciti a raccontare agli addetti del salone di bellezza che erano dei famosissimi attori provenienti dalla Giordania e che stavamo girando un colossal. Il risultato fu che questi del salone gli servirono e riverirono in tutti i modi. Per noi è stata una performance artistica stupenda, risi davvero molto.

Valeria - Anche per noi diciotto italiani è stato un processo, una trasformazione. Quando ho conosciuto Antonio, Khaled e Gabriele, qualche giorno prima di partire mi chiesero se a casa avevo un divano-letto in più per due persone che non sapevano dove mettere e non volevano che dormissero al Centro. A casa mia sono arrivati Mona e Ahmed con niente, senza alcun bagaglio, già questa è una cosa che ti traumatizza, la leggerezza, il lasciare tutto in un modo così forte.

Come avrete visto nel film Ahmed fuma tantissimo, una quantità di sigarette esagerata e la prima mattina che mi svegliai con loro in casa, ero preoccupatissima perché lui tossiva tanto e ho pensato “Ecco, Tubercolosi di sicuro, mi sono infilata in una situazione allucinante”. Perché prima di partire, le paure erano le mie paure, quelle di poter trovarmi in una situazione pericolosa, di poter essere arrestata, di non poter più far il mio lavoro, io sono una precaria dell’università, per cui nessuna università avrebbe assunto una persona che rischia di essere coinvolta in un processo penale connesso con l’immigrazione clandestina. La cosa davvero forte è che tutte queste paure sono sparite nel momento in cui le loro paure e le loro esigenze erano molto più significative delle nostre.

Credo che i due temi, quello del disobbedire e dell’essere dalla stessa parte vadano assieme nel senso che per essere così vicini bisogna porsi nello stesso piano. Se noi fossimo stati legali fino in fondo avremmo sempre avuto una posizione di superiorità. Il rischiare insieme ci ha messo sullo stesso piano perché ognuno rischiava qualcosa.

Questioni produttive e distributive

Antonio - La fase di produzione è stata costruita in modo totalmente casuale. Nelle due settimane di organizzazione partirono una serie di telefonate ad amici, amici di amici sparsi per l’Europa a cui chiedevamo ospitalità per un viaggio ma di cui non chiarivamo molto bene i dettagli. Poi quando arrivavamo nelle varie case, rimanevano tutti un po’ spaesati, poi molto velocemente si creava un clima di complicità e di vicinanza.

Sull’aspetto tecnico economico, abbiamo messo dei denari, che erano i nostri, 3.000 euro a testa più o meno, ad un certo punto è entrata una casa editrice che ha messo 2.000 euro e con questo abbiamo coperto le spese vive di viaggio, non essendo contrabbandieri i soldi non li prendiamo ma li diamo.

Una volta tornati dalla Svezia abbiamo cominciato a guardare il materiale. Il giorno prima di finire le riprese il direttore della fotografia mi prese in disparte e mi disse “Guarda, qui non abbiamo proprio un bel niente” questo per far capire in che situazione giravamo. Solo io, Khaled e Gabriele sapevamo un po’ cosa stavamo facendo ma tutti gli altri vivevano il viaggio in modo completamente casuale e per giunta molti di noi non sapevano neanche l’arabo con l’enorme difficoltà nel capire cosa stava succedendo. Io risposi che non faceva niente, che avevamo portato cinque palestinesi siriani in Svezia e che andava bene così, l’esperienza valeva la fatica.

Poi ritornati in Italia iniziammo a guardare il materiale, a tradurlo, rendendoci conto che era buono e che dovevamo cominciare a lavorare assiduamente. Questo significava che per lavorare così tanto per mesi avremmo avuto bisogno di uno stipendio, i nostri conti correnti erano sempre in rosso, ci veniva da piangere. Abbiamo quindi provato con le varie associazioni e fondazioni, abbiamo ricevuto un sacco di no e un sacco di sì, poi vedremo ecc. Praticamente niente.

Abbiamo, quindi, provato con il crowdfunding tentando di puntare alto visto che dovevamo pagarci il lavoro e rientrare anche delle spese precedenti. Grazie a questo sistema siamo riusciti a raggiungere 98,000,00 euro ben più di quello che avevamo chiesto che erano 75,000,00 e grazie a questi soldi siamo riusciti a pagare tutte le professionalità che hanno lavorato all’interno del progetto.

Ma la cosa più bella è stata quella del aver creato una comunità che è la stessa che ora attraverso i passaparola viene nei cinema. Questa comunità si è basata inizialmente su uno zoccolo duro pre-esistente costruito attorno alla figura di Gabriele Del Grande e al suo blog seguitissimo da migliaia di persone che hanno completa fiducia nel suo lavoro e che sono stati i primi a diffondere la notizia di questa ricerca. L’idea è più di mobilitare, piuttosto che creare una comunità.

Valeria - Molti film sono finanziati dal basso, ma spesso si finanzia l’opera artistica, il progetto estetico. Qui da una parte c’è il discorso della mobilitazione ma dall’altra c’è anche l’idea di dire VOI DA CHE PARTE VOLETE STARE? Noi poniamo una questione: siamo d’accordo o no su come vengono gestite le migrazioni all’interno di Shengen?

Poi ci sarebbe tutto il tema del confine marittimo del Mediterraneo, però noi abbiamo scelto di raccontare una storia più piccola, quella di rifugiati politici che, giunti sul territorio europeo, non hanno la possibilità di scegliere in quale paese vivere e che a fronte della fortissima mobilità dei cittadini europei non hanno la possibilità di muoversi all’interno del territorio dell’Unione per i regolamenti di Dublino.

Si tratta quindi di decidere quant’è ampia la loro possibilità di scegliere. Perché noi a questo abbiamo disobbedito, e la domanda di disobbedienza è anche una domanda d’impegno, cioè tu finanzi la disobbedienza, non finanzi solo l’ora e mezza di pellicola. Noi non volevamo commuovere, l’estetica della pietà è stata l’estetica del racconto sull’immigrazione degli ultimi vent’anni e fondamentalmente ci faceva sentir buoni ma non responsabili. Dall’altra parte c’è l’idea di dire che siamo un NOI siamo una comunità europea che vuole un’Europa diversa, che ospita, che ci racconta che l’Europa è piccola ed attraversabile in 4 giorni.

Antonio - Noi siamo distribuiti da Cineama, una società di distribuzione molto piccola ma appassionata. Con loro abbiamo fatto un discorso abbastanza interessante: non potendo pagarci la pubblicità main stream, abbiamo utilizzato la rete che già esisteva, chiedendo alle associazioni, che durante il crowdfunding avevano già prenotato una proiezione, di fare un accordo con i cinema e tale accordo si è tramutato nel primo giorno di tenitura all’interno dei cinema stessi. Questo ha significato spesso una visione gratuita il primo giorno per le associazioni e ha funzionato come pubblicità per i giorni dopo. Attraverso questo sperimentare giornaliero di forme e strumenti nuovi, abbiamo raggiunto 41 sale in tutt’Italia in quasi tutte le sale stiamo facendo sold out, tant’è che siamo secondi come media sala in tutt’Italia.

Oltre alla distribuzione ufficiale abbiamo istituito una distribuzione dal basso ovvero chiunque può andare nel nostro sito e nella sezione “proiezioni” prenotare una proiezione privata.

Antonio ritornando a parlare del viaggio, quasi ci tenesse a riportarci in quella dimensione, dice che mentre venivano raccontate le esperienze di guerra, quello che emergeva di più durante i momenti più pericolosi, era la reazione di gioia dell’essere umano: il ballare, l’ascoltare la musica a tutto volume per non pensare. Il pregio del film è anche questo, oltre a dare dei volti a dei numeri pone al centro il racconto dell’essere umano che non è fatto solo di cose drammatiche ma anche di speranza, di gioia, di voglia di catalizzare tutte le proprie paure, e perché no, improvvisare un concerto e sognare di diventare una star e provare ad esserlo per 5 minuti, tutto questo rende vero e autentico questo viaggio.

Quasi al termine dell’incontro all’interno del Cinema Giorgione ascoltando i vari interventi del pubblico mi accorsi dell’enorme fatica nel nominare la parola illegalità. Solo una ragazza disse che nel film era più interessante l’aspetto della comprensione rispetto a quello della disobbedienza, perché tanto le leggi non si cambiano.
Mi chiedo allora quanto sia facile diventare complici inconsapevoli di tanto orrore, perché se si ritiene la Legge immutabile e inattaccabile si decide di non vedere in essa la responsabilità rispetto l’espulsione, la privazione della libertà e l’esclusione che migliaia di esseri umani subiscono.

Seduti assieme attorno a un tavolo con Gloria, Piter, Valeria e Daria, mentre gli chiedevo chi fosse Gina Films, Antonio ci racconta che Gina è il nome di sua moglie e che la società è stata fondata da loro per poter gestire meglio i finanziamenti che arrivavano dal Crowdfunding e da altri donatori…poi aggiunge “Se hai un progetto che ami e in cui credi devi prendertene cura tu dall’inizio alla fine e si può fare…in fondo siamo dei sognatori”.

Fra i silenzi pieni di senso e le mezze frasi che non importano perché tanto ci si capisce comunque, ripenso a queste parole: “Dedicato ai nostri figli perché ricordino sempre che nella vita arriva il momento di scegliere da che parte stare”.

Roberta, Piter, Daria
S.a.L.E. Docks

 
 

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