Django Django – Born Under Saturn

by MonkeyBoy (Vinylistics)

15 Maggio 2015

Partiamo con una doverosa premessa. Nel 2012 uscì l’omonimo album d’esordio dei Django Django e fu subito candidatura al Mercury Prize. Ora, sapete tutti quanta sfiga porti vincere quel premio – e già la nomination fa correre dei seri rischi – ma fu effettivamente un album notevole, accolto assai favorevolmente in UK mentre negli USA in molti storsero il naso, ovviamente. Questo blog ancora non esisteva, però la band degli scozzesi David Maclean (batteria e produzione) e Vincent Neff (voce, chitarra), dell’inglese Jimmy Dixon (basso) e del nord irlandese Tommy Grace (synth) finì nella mia personale top 10 annuale, perché rappresentava un modo fresco, adrenalinico e orientato al futuro, di combinare neo-psichedelia ed elettro-rock con una buona dose di cazzeggio che male non fa mai. Tutto ciò per dire che le aspettative su Born Under Saturn erano eccezionalmente alte per un gruppo per il quale la maggior parte delle reazioni delle persone che li sentono nominare è: “Django chi?”.

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Troppo poser per Django Reinhardt

Prodotto da Maclean, è stato registrato in parte alla Netil House nell’east londinese, in parte agliAngelic Studios di Banbury. A detta della band il titolo è stato ispirato dall’omonimo libro di critica all’arte ‘classica’ scritto da Margot e Rudolf Wittkower; per quelli che un tempo erano studenti dell’Edinburgh College Art non deve essere stata un’associazione così complicata direte voi. Invece no, la storia dell’arte non c’entra affatto, il batterista/produttore è un appassionato di astrologia (eh) e quel titolo lo ha intrippato così tanto da farlo suo. In effetti, Born Under Saturn c’entra molto poco anche con gli astri, visto che i temi che emergono sono inerenti all’inizio di qualcosa di nuovo, alla rinascita difficile dopo un periodo di successo e presa di coscienza di sé. Si percepisce l’ansietà per un ritorno piuttosto atteso ma i Django scelgono un approccio a tratti coraggioso e forte per contrastarla, aumentando la quota danzereccia e pop, senza scardinare il resto dell’impianto psych-folk che, evidentemente, ai loro occhi funziona bene così com’è. In fase di scrittura, rispetto al debutto che era un ménage à deux tra Neff e Maclean, qui aumentano i contributi di Dixon e Grace per un lavoro che in sostanza è stato composto coralmente.

L’inizio lascia sperare davvero bene, da Giant al singolo First Light è esattamente quello che ci saremmo aspettati da loro. La prima è un avvio composto e sicuro di sé, guidato da un giro di piano che pare un treno in partenza – cadenzato e solenne – a metà tra i Beatles di Hey Bulldog ed i Kasabian più ispirati. La seconda mette al centro i synth in tipico stile Django Django mantenendo alte sia la qualità sia l’attenzione dell’ascoltatore, con pause e riprese studiate per rendere alla perfezione. Nulla a che vedere con qualcosa che si avvicini almeno a Default ma comunque un confortevole ritorno alle sonorità tipiche. In mezzo alle due, Shake And Tremble è un buonissimo esempio di come il rock anni ’50 possa essere citato senza eccessiva devozione, passando per una sorta di surf-rock (coretti compresi) fino ad arrivare nuovamente in territorio Kasabian, ed al secondo giro non può essere un caso.

Se è vero che rispetto al passato ci sono più chitarre e addirittura momenti ‘acustici’, è altrettanto vero che un paio di episodi molto ben riusciti sono quelli in cui la band si emancipa dalle atmosfere solari per virare sull’elettronica dark. Found You High Moon nascono direttamente dalle sessioni di registrazione di The White Devil, una tragedia di John Webster prodotta dalla Royal Skaespeare Company e musicata dagli stessi Django. Mid-tempo, gotica ed esistenzialista (“I’ve heard my name spoke in vain so many times”), Found You parla di un uomo che ha fatto il classico patto col diavolo sulle note di un organetto inquietante, mentre High Moon ripropone l’eterna lotta tra notte e giorno con un mood assai malinconico soprattutto nel finale, citando senza pudore i Depeche Mode. Sono brani che si distaccano dal consueto canovaccio e che con la sequenza iniziale rappresentano il meglio di questo Born Under Saturn, a cui si deve aggiungere anche la canzone che forse potrà dividere maggiormente critica e pubblico, ossia Reflections. Personalmente la trovo un piccolo azzardo azzeccato, così trippy e complessa da svariare tra elettro-rock e dance con semplicità ed in modo efficace. Di sicuro funzionano il contributo sax di James Mainwaring dei Roller Trio, l’uso massiccio di tastiere e la vecchia drum machine russa che i quattro hanno trovato chissà dove. Ed è pure l’unico episodio dance-oriented che funzioni perché arrivati a questo punto, ve lo devo proprio dire, non si può che scendere. Dalla metà in poi, salvo un paio di pezzi, sarà tutto un bene ma non benissimo.

Cominciamo col dire che la piega popolar-danzereccia che i Django hanno scelto per questo ritorno se da una parte è comprensibile per uscire dalla difficoltà di riproporsi dopo un successo inaspettato e difficile da sostenere, dall’altra fa emergere alcuni dei limiti strutturali della band. Pause And Repeat, inserita nella prima parte, è già un campanello di allarme e si fa notare solo per l’uso del theremin. Altrove, canzoni come la tropicale e percussiva Vibrations o 4000 Years, dove torna il sax, palesano una mancanza di idee che si unisce ad una vocalità sempre troppo uguale a se stessa che, quando non sostenuta dalla brillantezza melodica o dalla complessità strutturale, riesce addirittura ad annacquare il significato ultimo e profondo che pure questi brani avrebbero. È anche il caso diShot Down che parla di crimini e tradimenti con synth e percussioni a reggere il gioco mentre uno dei cori più azzeccati del disco è però fuori posto in un contesto che avrebbe meritato tutt’altro spessore ed intensità emotiva. Come dire, a volte va tutto un po’ in vacca, si appiattisce ciò che dovrebbe avere profondità e si sente la mancanza di stati d’animo un attimo più complessi del siamo qui a divertirci e far divertire voi.

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Troppo chained per Tarantino

Tredici brani per quasi un’ora sono troppi in un lavoro di questo tipo, col risultato già espresso sopra che dopo un buonissimo inizio ci si perde. Il finale, al di là del discreto valzer psych-folk di Beginning To Fade, punta in egual misura su tradizione (chitarra, basso e percussioni in Break The Glass) e su ritmiche indebitate col sound africano (Life We Know) che pur hanno sempre rappresentato una grande influenza per i Django, ma risulta debole e blando, e quasi rovina quanto di buono fatto prima. Alla fine i momenti positivi superano quelli negativi e da qui il giudizio positivo per un album che a tratti fa divertire ed ha qualche spunto interessante ma la sensazione è che si sia persa molta di quella brillantezza che aveva colpito agli inizi. In Born Under Saturn i Django Django scelgono di dare un’occhiata al mainstream – e niente di male, per carità – ma si ripetono troppo per non latitare in irriverenza ed efficacia. Nessun dramma  ok, sono appena al sophomore ed avranno tutto il tempo per esprimere a pieno il loro potenziale. Rimane però l’amaro in bocca per una prova che li ha visti sì muoversi ma senza sapere bene dove andare.

 
 

Vinylistics

 
 
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