Outfit – Slowness

by MonkeyBoy (Vinylistics)

24 Giugno 2015

Uno dei primissimi articoli che scrissi per questo blog cercava in qualche modo di raccontare l’esordio sulla lunga distanza degli Outfit da Liverpool. Performance fu un disco che destò buone impressioni e mi sembrò logico cominciare da una delle band meno note, nel pieno spirito di questo progetto. A quasi due anni di distanza, Andrew PM Hunt (voce, chitarra, synth), Thomas Gorton (synth, voce), Nicolas Hunt (chitarra), Christopher Hutchinson (basso) e David Berger (batteria), non sono di certo diventati universalmente conosciuti ma il loro ritorno per l’etichetta Memphis Industries, Slowness, è atteso con un certo interesse dalla cosiddetta stampa specializzata, e nel mio piccolo non potevo esimermi dal parlarvene. Con un po’ di nostalgia, qualche timore e tanta curiosità.

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Rispetto al 2013 i cinque Outfit si trovano sparsi per il mondo, hanno passato questi ultimi anni divisi fra tre città e due nazioni: ovviamente Liverpool, ma anche New York e Londra. Ciò ha contribuito ad arricchire il loro bagaglio musicale e di vita vissuta ed allo stesso tempo ha permesso loro di sperimentare gli effetti derivanti dall’essere costretti a vivere lontano dai propri affetti e dalle amicizie di sempre. Evidentemente, la nuova fase della loro esistenza non poteva non avere ripercussioni su questa seconda prova tanto che il tema dominante è quello della distanza, fisica certo, ma anche spirituale, quella cosiddetta incertezza emozionale che la lontananza crea in ognuno di noi. Il sacrificio che deve affrontare chi non può (ancora) vivere di sola musica è fonte di ispirazione per Andrew Hunt, autore della maggior parte dei brani, ed investe sia la sfera amorosa che quella degli affetti in generale.

Un ulteriore contributo arriva dalla lettura de La Lentezza di Milan Kundera – che come avrete capito ha ispirato il titolo – in cui il frontman trova la chiave per elaborare sentimenti, paure e stati d’animo a migliaia di km da casa sua. Registrato durante settimane di session intensive, Slowness è nuovamente prodotto da Berger ed abbandona in parte l’inclinazione dance in favore di una sterzata psichedelica ed elettronica su cui cresce (non di tantissimo, ma cazzo se cresce) il synth-pop di puro stampo Outfit.

 

 

La partenza è davvero ottima. New Air ha un loop iniziale così glitch che è possibile immaginare la band in studio che prova e riprova a cercare quest’iniziale effetto fluttuante, prima che – con relativa calma – entrino basso, batteria, synth, chitarra ed una semplice linea di piano. C’è voglia di esprimere un nuovo inizio (“New air something different, feel it brushing your cheek”) pur senza stravolgimenti. La successiva title-track suggella il binomio piano-synth – sarà un classico per questo LP – con un ottima melodia (in zona Death Cab For Cutie), un cantato delicato e quasi androgino. Scritta da Hunt a Brooklyn, Slowness è il centro tematico dell’album focalizzandosi sulle sensazioni che Lui prova quando un oceano lo separa dalla sua Lei. Impossibilitato a fare qualsiasi cosa per porre rimedio alla situazione, al protagonista non resta che muoversi lento attraverso la nuova città, ricordando i momenti felici e così lontani.

Ciò che si percepisce è la crescita sostanziale di tutta la band, in particolar modo della sezione ritmica. Il fatto che in fase di scrittura ci sia stata maggior collaborazione fra i cinque deve aver giovato molto ed ognuno ha avuto modo di trovare la sua strada col suo strumento, distaccandosi dalle proprie influenze. Tutto questo emerge maggiormente in brani come la bellissima Smart Thing, forse il brano più diretto fra tutti, intrigante ed elegante nella sua semplicità. Un po’ di Metronomy nelle ritmiche, uno po’ di new wave alla Talk Talk nelle atmosfere e diventa improvvisamente facile elevare poco più di 3 minuti guidati dal basso in qualcosa di raffinato come non mai.

Ormai si è capito come accanto alla solita pulizia e cura nella produzione gli Outfit, rispetto al debutto, si siano fatti più leggeri e rarefatti, rifiutando la cassa in quattro come la peste senza rinunciare a ritmi sostenuti e alla melodia. Se Boy è di nuovo sospesa tra pianoforte e sintetizzatore – con un senso di ansietà costante – Happy Birthday concilia la rilassatezza di cui sopra con la vena più psych che si possano permettere. Ad un inizio minimale, fa seguito un cambio di mood verso la metà del brano, quando entrano gli strumenti, fino ad un finale inaspettatamente esplosivo in cui dilatano e probabilmente trovano l’apice del loro sound.

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Slowness è, per tanti motivi, un album fluido anche se meno immediato del precedente. Deve essere ascoltato nella sua interezza prima di avere un’idea sufficientemente chiara su di esso, coglierne ogni possibile sfumatura. A tratti è teatrale come nell’elettro-pop astratto di Genderless – gran bel pezzo sul sentirsi disconnessi dal proprio corpo e dalla propria sessualità al punto di scomparire completamente – che progredisce intensamente fino ad un clamoroso climax di droni. A tratti è drammatico come in Framed, un pezzo ritmicamente rock in cui l’innesto di tastiere confuse ed indefinite fa da sfondo al tema sulla necessità che quelli che ci circondano hanno di noi e della nostra presenza, con annessa riflessione sull’amore e sul saper amare, e con tanti saluti a Don Draper.

Verso il finale le tematiche si alleggeriscono un po’ nella spigliata On The Water, On The Way per poi tornare a farsi scure in Cold Light Home che, con le sue chitarre quanto mai selvagge (e qui anche Nicola Hunt trova infine al sua strada), conduce al finale nuovamente elettronico di Swam Out. Inizia in totale introspezione, procede in un periodo centrale di turbolenze e si conclude in un finale glorioso ed in crescendo di totale redenzione, quasi fosse la summa di tutto il disco.

C’era più di una ragione per temere un passo falso, mezzo o intero che fosse. La seconda prova è sempre la più complicata, e reggere le aspettative non è mai facile per nessuno. Gli Outfit ne escono alla grande con un lavoro sorprendentemente riuscito, ricercato senza essere pretenzioso, dove i rischi che in un certo senso si sono presi negli arrangiamenti e nelle strutture dei brani hanno pagato ottimi dividendi. Ora è difficile dire a chi assomiglino perché suonano abbastanza diversi da non essere derivativi. Per chi vi scrive è un grande passo in avanti, i cinque di Liverpool sono usciti dal guscio e non possiamo fare altro che aspettare il prossimo passo. A volte, come dicevano quelli, la solitudine è una benedizione.

 
 

Vinylistics

 
 
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