The Chemical Brothers – Born In The Echoes

by MonkeyBoy (Vinylistics)

24 Luglio 2015

C’è una cosa che mi chiedo spesso quando penso a certe band o artisti che sono delle vere e proprie istituzioni del mondo della musica contemporanea. Che cazzo li fa andare ancora avanti? Voglio dire, qual è il motore primo, la forza latente che li spinge a continuare? In molti casi la risposta è racchiusa in cinque lettere (aka MONEY) ma non basta. C’è gente là fuori piena di soldi, fama, successo e notorietà che non si limita a vivere sugli allori andando in tour a spennare i fan ma prosegue la propria carriera rischiando tra successi e qualche (a volte anche clamoroso) flop. E forse sono proprio questi rari insuccessi la molla che in un certo senso li ‘costringe’ a tornare in studio e cercare di dare il meglio di sé, ancora una volta.

Prendete i Chemical Brothers. Sono in giro ormai da 20 anni, dal 1995 – anno in cui uscì quella pietra miliare che fu Exit Planet Dust – al 1999 di Surrender riscrissero la storia della dance music combinando hip-hop, acid house, elettronica e psych-rock in qualcosa che al tempo venne definito Big Beat, sdoganando l’idea di unire cantanti indie alla roba dancefloor, e non sbagliando praticamente mai un colpo. Non erano i soli, ovvio, c’erano anche Fat Boy Slim, i Prodigy, i Basement Jaxx per fare alcuni nomi ma ditemi quali di questi hanno tutt’ora la rilevanza di Ed Simons e Tom Rowlands. Appunto, nessuno. Poi come molte cose del mondo, la loro formula vincente divenne, appunto, uno standard e la magia dei due andò pian piano scemando, se è vero che da Come With Us (2002) a We Are The Night (2007) si sono limitati ad amministrare il loro successo e poco più. Nel 2010 però accade che i nativi di Manchester dicono addio alle collaborazioni e fanno uscire un album, Further, con un sound più profondo e ricercato rispetto ai precedenti, in cui si torna e respirare aria di sfida e parziale innovazione pur con qualche problema di messa a fuoco. Su quel disco poggiano le basi di questo Born In The Echoes, ottavo lavoro dei Chemical Brothers, che esce per la Virgin EMI e che dà calci in da la fazza a tutti quelli che li davano ormai per spacciati.

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La formula è sempre quella, c’è Tom – il più dotato, musicofilo e collezionista di sintetizzatori vintage e che a volte suona e canta – in combinazione con Ed – quello concreto, il McCartney della situazione, che ama i pezzi brevi ed ha l’orecchio per il pop – e poi ci sono i loro macchinari, synth tastiere campionatori e quant’altro. Rispetto a cinque anni fa tornano le collaborazioni, pure con nomi giganti, ma a questo giro i Fratelli Chimici hanno imparato la lezione (che fondamentalmente è: gli anni ’90 non torneranno più) e piegano le voci delle guest star al proprio volere così da renderle essenzialmente funzionali ai brani. In questo senso, l’esempio più fulgido è Under Neon Lights dove la voce di Annie Clark (alias St. Vincent) viene consapevolmente destrutturata, elettronicizzata e modificata in ogni modo possibile fino a renderla quasi irriconoscibile, ma adatta al noise ed ai blips del brano in modo clamoroso. Lei ci mette molto di suo (“And she moves to suicide, in and under neon lights”) se gli stessi Chemical Brothers parlano dell’incontro con la moderna dea dell’indie come di una rivelazione metafisica.

 

 

In realtà, a funzionare alla grande è l’intera prima parte del disco. L’iniziale Sometimes I Feel So Deserted ha il piglio dei tempi migliori, è una specie di synth-pop pesante con lievi reminiscenze di big beat nella drum machine e rappresenta forse la migliore introduzione possibile alla successiva Go, il singolone da radio, quello che chiunque viva nel nostro Sistema Solare non può fare a meno di ascoltare su qualsiasi radio più volte al giorno...continua a leggere su Vinylistics

 
 

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  • The Chemical Brothers - Go
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