Un'intervista ai Mother Island in occasione del loro concerto al Cso Pedro lo scorso novembre

Mother Island, tra psichedelia e amore per la musica

di Matteo Molon

22 Gennaio 2016

Spesso mi trovo a pensare a quanto sia bello parlare di musica, ma ciò avviene troppo poco perché è pratica in disuso, specialmente in questi anni rinchiusi fra streaming, download pirata, dove l’ascolto è ricondotto all’isolamento della propria stanza.

Fa strano parlare di dischi e semplicemente di un album, scrutandolo, analizzandolo, perché la musica liquida è diventata acqua fresca, e anche ciò che vale la pena ascoltare e ha un contenuto scivola dalle mani.

L’assurdo della faccenda è che nel momento storico in cui abbiamo più facilmente musica a disposizione ne discutiamo sempre meno; potremmo passare sere intere a trovare i dettagli delle canzoni mai cosi a portata di mano e di orecchio, senza perderne in istinto. Forse era proprio la limitazione dei tempi del vinile/cd, della musica a pagamento che faceva l’uomo scaltro e aguzzava l’ingegno. Per ovvi motivi pratici un disco non lo potevi esaurire nel tempo del click e perciò dovevi trarre dal poco che avevi il massimo. Davi un valore a ciò che suonavi.

Senza eccessive retromanie, era bello era bello e conviviale condividere la passione per la musica, ti faceva sentire più partecipe e caldo nell’affetto rivolto ai suoni. Riempiva parte di quel “buco” citato da Accorsi in Radiofreccia. Intervistare i Mother Island prima del loro concerto al Cso Pedro (Padova) del 21 novembre mi ha ricordato questo fiore di sensazioni, maturate nelle settimane successive.


Di voi si trovano poche informazioni in rete, cosa voluta o non voluta?

Questa cosa non è cercata, siamo abbastanza pigri per quanto riguarda il “marketing”, non c’è un ufficio stampa. L’album Cosmic Pyre è uscito a gennaio e abbiamo rilasciato qualche intervista su carta. Più che altro pensiamo che ognuno debba farsi la propria idea su ciò che ascolta senza essere influenzato dalle parole altrui.

Cosa curate maggiormente dell’aspetto live?

Puntiamo soprattutto sull’impatto, da quando scriviamo un pezzo a quando lo portiamo dal vivo: una via di comunicazione forte che arrivi diretta al pubblico. Guardando ai precedenti live questo accade e il disco registrato in analogico cerca proprio di trasmettere l’atmosfera del concerto.

Ritrovo spesso una linea di malinconia latente, anche nei pezzi più carichi. La sento solo io?

Abbiamo piacere che traspaia un certo senso di malinconia anche nei pezzi più tirati. La musica è un qualcosa di catartico, “una sessione gratuita dallo psichiatra” per buttare fuori quello che si ha dento, ma non siamo solo questo. Si può parlare di melanconia, affine alla Melancholia del film di Lars von Trier, dove il senso di vivere male per stare bene permette allo spettatore/ascoltare di superare questo particolare stato emotivo.

Rimanendo sulle stesse frequenze, come nasce il brano Sirbonzodequincey?

Il brano è dedicato ad un nostro fan che ci ha seguito fin dalla prima ora, persona che però è venuta a mancare a pochi giorni dell’inizio delle registrazioni. La canzone è nata la notte antecedente buttando giù una linea melodica che assieme ad altre parti ci trasmette ancora determinate emozioni. L’album non ha risentito del suo clima ed anzi è la “canzone” dell’Lp.

Cosa rappresenta la copertina, che a me ricorda un po’ la divisione cellulare? E perché una prima versione in vinile e successivamente una in cd?

A livello grafico siamo stati attenti che la copertina rappresentasse una visione comune di sei persone, ma ognuno alla fine può trarre il proprio significato. Ogni volta qualcuno ci vede qualcosa di diverso e ciò è bello, perché come per le canzoni è giusto dare il proprio senso a ciò che si guarda.

L’autore è un nostro amico, Fred par kraat (al secolo Federico Zotta) dei Sultan Bathery, che ha curato in autonomia la realizzazione dell’artwork, donandogli un’aria astrale; pensandoci, gli astri possono comportarsi similmente alle cellule.

(Info: Fred ha realizzato le copertina anche per l‘album omonimo dei Sultan Bathery, e per Sette della Piramide di Sangue)

Per politica nostra e dell’etichetta (Go Down Records), e per la registrazione analogica il supporto più naturale è stato il vinile. Siamo abituati ad ascoltare la musica in questo formato, avere anche “un disco nostro” era importante.

Qualche titolo di album che per voi sono da ascoltare e che vi hanno ispirato?

Beatles – Revolver
Jefferson Airplane – Surrealistic Pillow
Diamanda Galás e John Paul Jones – The Sporting Life
Diamanda Galás – La Serpenta Canta / Vena Cava
Paul Kantner, Grace Slick, e David Freiberg from Jefferson Airplane – Baron von Tollbooth & the Chrome Nun

Nei Mother Island c’è una forte impronta jazz, che sta venendo fuori nelle registrazioni del nuovo album, prodotto da un altro amante del jazz: Mat dei Mojomatics.

Cosa rappresenta per voi ad oggi il Rock ‘n Roll?

Rimane un’attitudine, un modo di approcciarsi non solo alla musica ma alle cose in generale. Non si può più inquadrare una band nel rock ‘n roll, il melting pot che si è creato fa si che i generi siano usati come definizioni per capirsi, poi il concetto si amplia, i termini sono sempre riduttivi. Si parte dal generale per arrivare all’individuale, e ognuno sente in un gruppo ciò che vuole sentire. Noi pensiamo di avere quest’effetto.


I Mother Island dal vivo sono una vera forza della natura che non tradisce le aspettative. Da forza, calca il palco senza incertezze e l’attitudine prima accennata si libera in tutta la sua energia pervasiva. La scaletta mantiene alto il tiro del suono andando quasi a superare quella linea di malinconia latente, e gli attacchi di chitarra uniti alla voce potente mostrano una melodiosa scrittura pop, su disco meno evidente. Il loro è uno spettacolo di colori che trasforma il Pedro in una locale dal sapore esotico, fuori dalla banalità della città.

Oggi sembra che volere bene a una passione, una persona sia quasi un peccato da confessare sottovoce, fa paura, ma a loro no, e lo cantano.

 

Tratto da kahunasurfr.wordpress

 
 
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