Yak – Alas Salvation

by MonkeyBoy (Vinylistics)

27 Maggio 2016

Gli Yak sono tre regazzetti inglesi di Londra. Attivi fin dal 2014 – anno in cui sull’internet compare la loro prima canzone, Plastic People – sono assurti all’onore delle cronache a fine 2015 quando il loro EP No è stato pubblicato dalla Third Man Records di Jack White. E già qui il mio ed il vostro senso di ragno avrebbe dovuto pizzicare all’impazzata. Mentre Oliver Burlsem (voce, chitarra, organo), Andy Jones (basso) ed Elliot Rawson (batteria) scuotevano la capitale britannica con live show spettacolari ed adrenalinici oltre ogni dire, i magazine si fiondavano come faine sulla nuova next big thing. Su tutti (ma dai?!) l’NME che pacato come al solito li definiva il gruppo esordiente più interessante della galassia. Con tutto questo hype sarebbe stato impossibile non farsi venire la scimmia e quindi oggi sono qui per parlarvi di Alas Salvation, il debutto inglese dell’anno.

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Se c’è una cosa che colpisce degli Yak è l’attitudine da band navigata, che crea una propria etichetta – la Octopus Electrical – e chiama Steve Mackey (bassista dei Pulp, già al lavoro con Florence e Palma Violets) per farsi produrre il disco. Oli Burslem, frontman e mini-clone jaggeriano, è l’autore di 13 brani profondamente devoti ai decenni ’60 e ’70 di questa e dell’altra sponda dell’Atlantico. Allo stesso modo dentro Alas Salvation ci sono anche gran parte degli ultimi 15 anni per cui una cosa è certa: i tre non temono paragoni, o per lo meno non fanno niente per nascondere l’incoscienza che solo la gioventù ti sa dare. Anzi, te la sbattono in faccia senza tanti giri di parole e se alla fine ti fanno male le orecchie be’, sono un po’ cazzi tuoi.

L’inizio è un trittico punk-rock prima maniera sparato a volumi e giri altissimi seppur molto ragionato ed efficace. Victorious (National Anthem) prende un po’ dei White Stripes nell’andatura di pause/ripartenze e fuzza tutto il resto, con cori alla Last Shadow Puppets e testi diretti al punto (“No two-up, two-down, no picket fence”“What you’re sick? Tough shit, you’ll miss the rest”). A seguire èHungry Heart – già singolo l’anno scorso – a rincarare la dose aggiungendo una venatura psych a nemmeno 3 minuti di furia selvaggia, con la chitarra libera di vagare inventando suoni ma dove a predominare è il basso. In Use Somebody Burlsem si diverte a fare Iggy Pop mentre un piano rock and roll arricchisce di colori la prima parte di un mini medley in cui si fluisce senza soluzione di continuità nel drone dell’Interlude I  e in Roll Another. Pezzo di chiara derivazione stonesiana, è il primo momento in cui si esce dall’apnea, anche se l’incipit acustico finisce lo stesso per esplodere in un noise guidato dalla sezione ritmica.

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Che gli Yak siano più furbi che belli lo si capisce dal fatto che prima che si estingua il fuoco sacro arriva Curtain Twitcher, glam riverberatissimo che torna a spingere grazie a riff molto semplici e una voce schizofrenica e pazza. Quella centrale è la parte migliore, suggellata tanto dallo psych-pop dell’ottima Take It – il cui giro ipnotico pare avvitarsi su se stesso all’infinito – quanto dall’up-tempo di Harbour The Feeling altra traccia killer che vede i tre ripartire come cani sciolti. Se la prima è il sogno bagnato di Turner e Kane (soprattutto nella coda livida e ridondante) e spiazza per maturità, la seconda è la sublimazione della devozione agli Stones, che riecheggiano ovunque, seppur sotto steroidi, mentre Burlsem ripete fino alla nausea “No consequence”.

Il minuto abbondante della title-track aggiunge poco o nulla, minimale com’è nel sound – ma la chitarra è pura essenza di White Stripes de li tempi belli – e nelle liriche (“Gilded lily, nest of vipers, never ever did invite us”). Però quando il bignamino dei miti da citare arriva alla pagina Nick Cave vale la pena soffermarsi sull’ecletticità della voce (spesso effettata) di Oli Burslem, che nello spaghetti-western Smile gioca col tono baritonale à la Cave tanto quanto sul finale cerca i limiti della propria estensione vocale con urla e gorgheggi assai alti. E le melodie? Abbiamo anche quelle – provare per credere il quasi tributo strokesiano Doo Wah (“How long does this carry on?”: Julian, sei proprio tu?!) – ma vanno cercate al di là del muro di rumore dietro cui si celano anche texture piuttosto elaborate e solo apparentemente semplici.

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Prima della conclusione c’è ancora tempo per l’Interlude II (già noto come No Glitter, Just Gutter per via di liriche che ripetono queste parole e poco altro) che a me ricorda inopportunamente quest’altra cosa qui. Poi è solo Please Don’t Wait For Me e qui capisci che gli Yak hanno una certa luce dentro. Non è solo il brano più lungo in scaletta (quasi 8 minuti) ma è soprattutto una jam prog, esplorativa e dissonante, che sa essere psych quando cita i Beatles di Blue Jay Way, garage nell’attitudine e addirittura acustica nella parte finale conosciuta come All You Need Is A Stranger. Potrebbe essere quasi spiazzante lasciarci così ma per come hanno condotto la corsa lungo tutto Alas Salvation, gli Yak si accomiatano nel modo più furbo possibile, lasciando intravedere potenzialità enormi per il futuro...continua su Vinylistics

 
 
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