Goat – Requiem

by MonkeyBoy (Vinylistics)

26 Ottobre 2016

Dai, sapete già tutto. Le maschere, le identità segrete, il villaggio di Korpilombolo nel nord della Svezia ed il suo passato di rituali voodoo, la tradizione secolare con diverse incarnazioni della band. In questi anni sui Goat s’è scritto molto e capito poco. Dal botto fatto all’esordio con World Music fino a questo Requiem passando dal meno fortunato Commune del 2014, il collettivo svedese è riuscito a mantenere il più stretto riserbo su tutto quello che non concerne la propria musica. Al massimo hanno rilasciato qualche intervista in cui fanno finta di dire qualcosa ma in realtà ripetono controvoglia quello che gli intervistatori vogliono sentire da loro. Non si sa nemmeno quanti siano veramente, se Christian Johansson sia un nome inventato oppure no (di certo lo sono Goatgirl e Fuzzmaster Flex). Ora, però, pare si sia giunti alla fine di un capitolo, con quello che la band stessa definisce come l’album ‘folk’.

Registrato in un’atmosfera intima e raccolta, Requiem è un doppio LP che supera l’ora di durata, di certo il più lungo della loro giovane carriera. Il fatto di non conoscere praticamente nulla delle personalità dietro al nome Goat costringe tutti a cercare nella musica tematiche e ispirazioni che abbiano influenzato queste 13 tracce. Probabilmente consapevoli di ciò, gli svedesi ci guidano all’interno del loro album più spirituale come fosse una specie di rito iniziatico, alla fine rivelandoci molto più di quello che forse avrebbero voluto.

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I primi tre brani fungono da introduzione, a partire dal canto degli uccelli con cui si apre Djôrôlen/Union Of Sun And Moon, dove la prima parte è una cover del brano di Oumou Sangaré, mentre la seconda è il manifesto programmatico dell’album, una ballata pacata e acustica, in cui fa la sua comparsa uno dei nuovi strumenti introdotti: il flauto di Pan. Che ritroviamo nella desertica I Sing In Silence – singolo pubblicato a maggio – e nella strumentale Temple Rhythms. Quest’ultima è tutto sommato strutturalmente semplice, al flauto si aggiungono percussioni tribali ed un piano in sottofondo, ma aumenta i giri e la trance del disco chiudendo un inizio pastorale e leggero.

I Goat sono interessanti ad una nuova forma di psichedelia, incentrata maggiormente su elementi acustici e naturali; cercano di farci capire in ogni modo come un orientamento verso il ritualismo bucolico e celebrativo sia possibile, anche a costo di limitare le loro mistiche sfuriate psych. AlarmsTrouble In The Streets Psychedelic Lover hanno esattamente questo compito. La prima attraverso una cavalcata tra acid e folk, in cui introducono kora e güiro, spogliandosi di molto del superfluo che ad esempio rivestiva le canzoni di Commune. La seconda è invece un afropop per le strade di Città del Capo, che ruota su basso tastiere e chitarra, mentre l’ultima è forse la più trascurabile dell’intero Requiem, un episodio orientaleggiante che non esplode mai del tutto.

Goatband in realtà chiude il lato A di questo doppio LP ma appartiene di fatto già alla lunga parte centrale in cui la band domiciliata a Göteborg aumenta il volume e la pesantezza del proprio sound. Anch’essa strumentale, Goatband cresce lentamente con noise di chitarre zeppeliane e droni acustici, prima di cedere il passo a Try My Robe. Unendo ritmiche funk/afrobeat e strumentazione orientale ad un’attitudine psichedelica occidentale ed alla capacità tutta svedese di trovare melodie pop orecchiabili, questa è una vera e propria celebrazione della condivisione. “Share my bread! Taste my food! Try my robe!” è un invito all’unione fisica e spirituale attraverso la gioia e il colore, ed assieme alla sorprendente It’s Not Me incarnano lo spirito dell’album, la capacità della musica dei Goat di innalzare attraverso l’ipnosi ritmica.

Requiem non raggiungerà mai le vette di World Music ma ha comunque una produzione eccellente – la migliore che il collettivo abbia mai avuto – riuscendo ad unire in modo assai naturale le diverse influenze che arrivano tanto da oriente quanto da occidente, dall’Africa ovest e sub-sahariana, e dal nord artico. Forse in alcuni momenti pecca un po’ troppo di auto-indulgenza, come nelle già citate Trouble In The Streets e Psychedelic Lovered anche in All-Seeing Eye. Questa ricorda le vecchie cose, sia nelle sonorità sincopate che nella texture, ma dà l’impressione di non essere completa. Cosa che invece non succede alla gemella Goatfuzz che, dotata di un minutaggio maggiore, ha tempo di svilupparsi e tenere fede al proprio nome, finendo poi per rappresentare alla perfezione il carattere selvaggio che la sezione di mezzo porta in dote al disco.

GOAT. 2014 press images from Silver PR Band.

Ovviamente la parte conclusiva è affidata in prima battuta a Goodbye, lunghissimo afro-funk strumentale incentrato sulla kora e su bassi saturi, seducente e narcotico allo stesso tempo. Il finale è però di Ubuntu, che prende il titolo dall’idea africana di ‘benevolenza verso il prossimo’; su un minimo apporto musicale costituito sostanzialmente da un organo, ascoltiamo il dialogo fra più persone di quel continente che spiegano la filosofia che sta dietro a questo termine (“I’m not human without your being present”). È la sublimazione delle idee di condivisione, comunione, rispetto della natura in ogni sua forma che i Goat si portano dietro da sempre. E chiude un cerchio. Col disco, citando Djôrôlen ma soprattutto con la storia della band stessa, quando in sottofondo sentiamo l’eco di Diarabi, la prima traccia del primo album di 4 anni fa...continua su Vinylistics

 
 
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