Sanremo2020: di donne, di musica e mode

Una lettura critica del Festival della canzone italiana

20 Gennaio 2020

 

 

Chiunque stia leggendo in questo momento questo articolo, avrà sicuramente ascoltato le polemiche provenienti dall’ormai (di già?) trending topic #sanremo2020.

Sulle frasi sessiste pronunciate da Amadeus in sede di conferenza stampa si è già scritto abbastanza, ed io vorrei liquidare la questione in poche rapide righe.
Amadeus è il tipico conduttore, uomo, abituato ad essere il solo ed unico illuminato dai riflettori a neon, o, al limite, ad essere circondato dalle donne-immagine, come nel caso delle Professoresse-Ballerine, presenti nel programma l’Eredità (una di quelle è poi divenuta sua moglie, ndr.). Tuttavia, Amadeus non è che un conduttore che segue la sua testa, per quanto retrograda e sessista. Il problema maggiore risiede in chi consente a lui di intraprendere tali scelte, senza far alcun passo indietro, ovvero sia, la società concessionaria esclusiva del servizio pubblico in Italia, la RAI, una delle più grandi aziende di comunicazione d'Europa ed il quinto gruppo televisivo, per grandezza, del continente.

Una tale società avrebbe dovuto sostituire, nell’immediatezza, il conduttore, piuttosto che circondarsi di un disagiante silenzio.
Eppure eccoci qui, pronti a scaldare i motori della messa in scena più patinata del mondo musicale italiano: il Festival di Sanremo.

Chi scrive ha sempre guardato il Festival sin dall’infanzia, sul divano e col camino dinanzi acceso, mentre mamma preparava la cena e papà predisponeva televisione e divano nella maniera più consona a raggruppare l’intera famigliola - normalmente mio fratello dava forfait comparendo sporadicamente nei momenti più salienti.

L’incipit del Festival da sempre si incentrava sull’entrata spettacolare dal super-scalone dello studio: stuoli di dame si son susseguite con vestiti principeschi e colorati, mentre il conduttore uomo, con sfoggio di galanteria e sorriso smaltato, si adoperava per un ausilio, per scongiurare cadute (accadute) per via dei super trampoli sfoggiate dalle Signorine Buonasera dette, in senso ampio e meramente propiziatorio, co-conduttrici.

È nella mente dell’italiano medio, ormai da 70 anni, che il conduttore, colui che ragguaglia le redini della grande macchina, debba essere, per forza di cose (fisiologiche!?! e/o tradizionali) uomo. E la RAI non può che confermare, forse per via degli ascolti o della fama dei conduttori uomini, tale impostazione.
A rappresentazione di ciò basta scorrere la lista dei presentatori del festival di Sanremo: dal 1951 ad oggi, le conduttrici (esclusive e non correlate a figure maschili) sono state solamente 5.

Ciò che però infastidisce, al di là delle parole sgradevoli di Amadeus, è il costante pinkwashing alla quale viene sottoposto il festival. «Si parlerà tanto di donne, contro la violenza». Come se nell’immaginario collettivo le donne possano essere o «un passo dietro l’uomo» o, alternativamente, vittime da difendere.
Contro ogni fraintendimento: è giusto che in un momento tanto seguito come Sanremo, si parli - tra l’altro in mondovisione - di violenza sulle donne, tuttavia, bisognerebbe sottolineare che anche considerare le stesse come meri contorni infiocchettati in vestiti di raso, sia esso stesso violenza.

Potremmo definirla una vera e propria coercizione perbenista e borghese, in cui si specificano subito i ruoli che le innumerevoli donne (10) presenti sul palco dovranno assumere.

I compiti delle co-conduttrici (due per ogni serata) verosimilmente potranno essere:

- Leggere sporadicamente il gobbo per annunciare cantanti o ospiti;
- Attraversare il palco facendo giravolte ad ogni cambio vestito;
- Annuire e attendere in religioso silenzio che finisca l’interlocuzione che il conduttore-uomo ha intrapreso con gli ospiti di turno.

Ovviamente, sarò contenta di essere smentita.

Sul versante artisti e correlate canzoni, l’impressione che ho, da qui agli ultimi cinque anni, è che se fino agli anni scorsi i conduttori propendevano per la selezione della canzone sanremese per antonomasia, ad oggi l’andazzo è piuttosto cambiato.

Dimenticate l’idealtipo di dieci anni fa in cui Scanu vinceva in tutti i luoghi e in tutti i laghi insieme all’inno di Pupo e Filiberto tra il patriottico e lo sfottò, sino a Marco Mengoni!
Oggi, il festival di Sanremo segue le etichette più in, le multinazionali della musica, gli ascolti su Spotify, le visualizzazioni su YouTube, i trapper boy più appetibili, cercando prodotti spendibili tra i più giovani.

E se da un lato tale operazione di svecchiamento viene sbandierato ai quattro venti con lo slogan elettorale del «Dobbiamo dare spazio alle novità giovanili», appare lapalissiano che l’unica mission seguitata da quelle quattro mura del Teatro Ariston è una ed una sola, per dirla alla trap: il cash.
È ovvio però che non si può lasciare una grande fetta di pubblico alla concorrenza. Per non indispettire il pubblico più anziano, fonte primaria di ascolti televisivi, interviene infatti una spruzzatina di artisti selezionati direttamente dall’oltretomba.
Sembra architettata seriamente bene. O almeno, a livello remunerativo, sì.

La chiosa che vorrei affidare a tale articolo non funge propriamente da incentivo alla visione (ma io lo farò comunque).
Il festival di Sanremo resta e resterà il fenomeno più grande dei palinsesti, tra architetture imponenti, ospiti d’eccezione e momenti d’intrattenimento tout court; quel che sembra mancare, però, al di là della promozione pubblicitaria di pezzi ed album spendibili sul mercato, è la musica italiana vera e semplice, capace di esser degna di rappresentare un Paese, per qualità e creatività compositiva, musicale e testuale.
Quest’ultima sarà probabilmente racchiusa in pochi bozzoli promettenti, che forse non avranno modo di levarsi in maniera libera e spassionata, sorvolando il pubblico under sixty sonnacchioso e vestito a festa.

 
 
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