Camminare Raccontando - Serhildan. Le insurrezioni del popolo curdo negli anni ’90

A cura dell'associazione Yabasta Edi Bese

9 Aprile 2020

Gli anni ’90, nel Sud-Est della Turchia, nel Kurdistan Bakur furono segnati da una serie di sollevazioni popolari che segnarono la storia della regione per quegli anni e per quelli a venire. Il centro geografico di queste sollevazioni fu la regione del Botan, culla della cultura mitica curda ma ben presto si espansero a macchia d’olio, dalla città più grandi ai villaggi di provincia.

Erano ormai 10 anni che la guerriglia, organizzata e praticata dal PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan, colpiva duramente l’esercito turco. Fondato ad Ankara nel 1978 da alcuni studenti, il partito venne quasi immediatamente colpito da arresti ed omicidi, ed entrò in clandestinità pochi anni dopo, suddividendosi in due ali: una, quella del PKK e delle sue derivazioni istituzionali, più politica e un’altra, quella dello HPG, totalmente militare che aveva e ha come obiettivo quello di colpire le truppe di occupazione nei territori del sud-est della Turchia, il Kurdistan Bakur.

La volontà del movimento curdo e della sua leadership politica fu quello di coinvolgere le masse nel processo di liberazione e nelle rivendicazioni di diritti politici e sociali in un momento di particolare difficoltà sia per i movimenti nelle città che per la guerriglia nelle montagne. Era infatti in corso una pesantissima offensiva militare che costrinse migliaia di persone ad abbandonare i villaggi nelle montagne per trasferirsi forzatamente o in città o nei campi profughi allestiti in Nord Iraq.

Divenne fondamentale quindi in quel preciso momento storico coinvolgere tutta la popolazione, facendo prendere coscienza a tutti ed informandoli su quanto accadeva nelle montagne e nelle carceri speciali in Turchia.

Fu allora che divenne consuetudine lo SERHILDAN. Serhildan deriva da Ser(testa) e Hildan (alzare o sollevare) e letteralmente può essere tradotto come “alzare la propria testa”. Centinaia di migliaia di persone di tutte le età si riversarono quindi nelle strade, approfittando della occasioni pubbliche, cantando canzoni tradizionali e sventolando le bandiere proibite, ovvero quelle del Pkk e del presidente Ocalan. Ben presto le forze di polizia e l’esercito si misero all’opera e trasformarono le manifestazioni in confronto aperto tra le parti. Da canti e balli si passò rapidamente a pietre e molotov, le bandiere si trasformarono in barricate, il tutto al grido di Edi Bese! (ora basta!)

La repressione divenne brutale e la legge marziale divenne consuetudine ma questo non fiaccò lo Serhildan che ben presto divenne pratica quotidiana nelle strade delle principali città del Bakur dove migliaia di giovani, ora consci della loro identità e delle loro rivendicazioni politiche e sociali, tenevano sotto scacco l’intero apparato di sicurezza turco.

Lo scendere in piazza servì al movimento, che fino ai primi anni 2000 non poteva confluire in un partito politico e correre alle elezioni per motivi legati al “terrorismo”, per ingrossare notevolmente le sue fila, sia quelle nelle città che organizzavano la protesta quotidianamente ma anche le fila della guerriglia nelle montagne che viveva un momento di particolare difficoltà per colpa dei pesanti attacchi subiti dall’esercito turco.

Esistono momenti dove le rivendicazioni dei popoli letteralmente esplodono. Per i curdi del sud-est della Turchia uno di questi momenti è il Newroz.

Il Newroz, ovvero l’inizio dell’anno nel calendario persiano, coincide con l’inizio della Primavera, è sempre stato un momento importante perché per il popolo curdo questa celebrazione rappresenta la rinascita e la vita nel suo complesso ed è sinonimo di liberazione contro l’oppressione colonialista dello Stato.

Dall’inizio dello Serhildan, i giorni precedenti al Newroz sono un crescere di tensione, con migliaia e migliaia di persone che giorno dopo giorno scendono in strada e si preparano all’avvenimento dell’anno. Il 21 marzo in quasi ogni città del Bakur spuntano striscioni, cartelli e bandiere che inneggiano alla liberazione e alla richiesta di più diritti; per il popolo curdo è un’occasione per indossare i vestiti tradizionali e unirsi in cerchio a ballare; thé e baklava vengono offerti a tutti; le canzoni della resistenza vengono suonate al massimo volume.

Il Newroz diventa quindi un fondamentale momento politico, di aggregazione e di solidarietà ma anche soprattutto perché dai palchi più importanti i nuovi leaders politici curdi e di sinistra in generale cominciarono a lanciare appelli all’unità delle lotte sociali e politiche, con l’obiettivo di garantire i diritti fondamentali a tutti e tutte.

Fu proprio dal palco del Newroz del 2013 di Amed, Diyarbakir in turco, che due deputati curdi lessero l’appello alla pace scritto dal presidente Ocala che invitava la guerriglia a cessare le attività contro lo stato turco, al suo ritiro e disarmo e chiedeva allo stato turco l’inizio di un dialogo per costruire una pace duratura. Le premesse furono gettate, la leadership del movimento si impegnò in colloqui con gli apparati dello stato turco e per un certo periodo di tempo sembrò effettivamente che tutto andasse nel verso giusto, nonostante vi furono forti resistenze all’accordo da una parte e dall’altra.

Fu un notevole passo in avanti in un paese dove, sostanzialmente, non è riconosciuta nessuna “questione curda” e dove è vietato parlare di identità curda o lingua curda. Ma tutto crollò nuovamente nel 2015 quando sull’onda della guerra all’Isis, la Turchia ed Erdogan in particolare ripresero con forza le operazioni contro il PKK nelle montagne del Kurdistan, sia turco che iracheno. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, in maniera molto più violenta e meno prevedibile.

La guerriglia riprese con forza le sue operazioni, così come la repressione.

Le città del sud-est divennero di nuovo teatro di scontri pesantissimi, i quartieri a maggioranza curda la prima linea di una nuova guerra. Sull’onda dell’entusiasmo portato dai fratelli oltre confine che stavano ricacciando i miliziani del Califfato Nero nel deserto più profondo dopo la vittoria di Kobane, il popolo curdo rialzò la testa e prese nuovamente coscienza della sua forza e dei suoi diritti.

Si alzarono nuovamente le barricate nelle strade, comparirono armi e bombe incendiarie da una parte mentre dall’altra vennero schierati corpi speciali, carri armati e bombardieri. Un’intera regione venne messa a ferro e fuoco, migliaia di persone lasciarono le città assediate in cerca di rifugio, centinaia e centinaia invece trovarono la morte. Lo Serhildan divenne quindi una lotta per la salvezza.

Centinaia di giovani si trincerarono nei quartieri, avviarono vere e proprie forme di autonomia democratica nei quartieri dove condivisione dei beni e autodifesa divennero le parole chiave sulla bocca di tutti. Ma la risposta turca fu inflessibile: distruzione totale.

Questo tipo di repressione, sconosciuta ai più giovani, non fece altro che aumentare lo spirito di unità e fratellanza tra il popolo curdo e tutte le anime della sinistra turca. Le città vennero distrutte ma le idee e le pratiche del movimento curdo continuano ad essere quotidianità.

In un climax di presa di coscienza, con il mondo consapevole delle violenze di Isis e della Turchia, comparvero delle scritte sui muri nelle città sotto assedio che parvero allora come una minaccia ma che in realtà sono una promessa:

“Se voi fate come l’Isis, noi faremo come Kobane”.

 
 

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