"La vita bugiarda degli adulti" di Elena Ferrante

La recensione

14 Aprile 2020

Dopo aver terminato la tetralogia dell’Amica Geniale, non potevo non leggere il nuovo romanzo di Elena Ferrante, ormai sulla cresta dell’onda da mesi. Il libro, sempre pubblicato per Edizioni e/o è intitolato La vita bugiarda degli adulti.

Sin dai primi fraseggi mi sono resa conto di aver imparato a riconoscere lo stile di scrittura della Ferrante: tra le lunghe descrizioni e dialoghi intermittenti, il personaggio protagonista esprime riflessioni interiori e prese di coscienza, il tutto in prima persona singolare.

Il luogo, ormai divenuto tòpos, è nuovamente Napoli. Una Napoli all’interno della quale si scontrano due facce della stessa medaglia: la borghesia studiata della città “alta” (per agiatezza e posizionamento geografico) da un lato, ed il proletariato più truce e volgare dei vasci, dall’altro.

Giovanna, adolescente borghese, racconta nel libro una storia di crescita tra consapevolezze messe in crisi nel tempo che scorre, mentre si collezionano esperienze ad ogni nuovo “affacciarsi”: in strada, a scuola, in famiglia, coi ragazzi.
La famigliola composta dal padre, amorevole genitore e studioso appassionato, dalla madre, attenta professoressa e correttrice di bozze di romanzi rosa, si sta sgretolando: Giovanna vive l’allontanamento dei suoi genitori tra silenzi pregnanti e discussioni a mezza bocca, mentre cerca di incanalarsi in binari educativi che non sente propri, e che il più delle volte disprezza sino alla bocciatura.

La scuola è un contenitore vacuo di mero nozionismo mentre lei, giovane donna dalle mille ispirazioni, tenta di sbrigliarsi dalle imposizioni con letture fuori programma, cosicché la mente volga altrove, tra pagine ben più piacevoli lette voracemente.
Nel momento in cui il nucleo d’origine sembra barcollare sino ad essere messo in discussione, Giovanna fa la conoscenza di sua Zia Vittoria, con la quale suo padre, già da tempo addietro, aveva reciso ogni collegamento. Vittoria è una donna forte e duramente provata dalle sofferenze sentimentali della sua gioventù; si innamorò di un uomo già sposato e con prole a seguito, con il quale aveva vissuto una storia passionale a tinte fosche, fatta di carne nuda stretta al cuore, e gemiti d’ardore. La donna nutre uno spiacevole astio nei confronti del fratello, reo di averla allontanata dal suo grande amore. Sovente, vomiterà il suo odio nei confronti di sua nipote, colpevole di essergli figlia, o, in un delirio di bipolarità, le dimostrerà affetto amorevole.

Il sesso è un altro tema ricorrente. Una cosa è certa: non è un tabù in casa di Giovanna, con i genitori ad avergli dettato le prime lezioni di educazione sessuale. Non lo è nemmeno in casa di Vittoria, che dopo aver donato descrizioni realistiche a sua nipote, tenta di riportarla sulla retta via attraverso alcune, semplici delucidazioni: «Non dare agli uomini quel che dovresti dare dopo», «Gli uomini solo quello cercano».

Mi son fermata anche io a pensare su tali frasi, sentite così tante volte e provenienti da più personaggi importanti della mia vita. Ad oggi, da donna per così dire adulta, quasi sorrido a ricordare quei discorsetti ripieni di paternalismo. Il solito scenario – meridionale e patriarcale – in cui la donna non prova piacere, ma si concede volontariamente al solo scopo procreativo, l’alternativa combacerebbe con la violazione del corpo, ed il successivo abbandono a se stesse dagli uomini, ormai dagli istinti animaleschi appagati.
Quel che è certo è che Giovanna tocca con mano un sesso ben diverso da quello descritto sulle pagine più colorite di romanzi femminili, ma sporco, alle volte nauseabondo e dagli odori sazievoli.

È la zia Vittoria, dai toni sguaiati ma reverenziali, che porta per la prima volta Giovanna in Chiesa. La ragazza conoscerà un giovane studioso, ormai trasferitosi a Milano, parlare di Bibbia e Vangelo, in una chiave mai appresa prima.
Non ricordo quando per la prima volta, anch’io, da bambina, presi in mano il fulcro libresco del Cattolicesimo e cominciai a leggerlo. Dal primo impatto non può che ricavarsi una rendicontazione vetusta e fuori dai tempi moderni, tra un Dio iracondo e uomini contriti. Giovanna riesce a rivolgere i primi interrogativi teologici o le critiche più sferrate in salsa agnostica al giovane studioso, tra un caffè in piazza Amedeo ed una passeggiata in compagnia della sua fidanzata. La religione sarà, però, un mero strumento da utilizzare per governare altri spiriti.
La fidanzata del laico, intanto, vivrà una crisi personalissima: si sentirà inadeguata per ceto, per mancanza di studi elevati (mia nonna li chiamava è scol alt), in cui non riuscire a stare al passo con gli altri e soffrirne. Lei, è un personaggio che avrei gradito approfondire, ma che resta sullo sfondo della vita della protagonista, il più delle volte egoista e noncurante.

Il filo rosso che interconnette ogni pagina è sottile e d’oro: un braccialetto. Vessillo di magnificenza ed eleganza nonostante la provenienza reietta. Il materialismo più bieco, di pagina in pagina, si avvolgerà ai polsi di più donne in una danza senza fine, collegandosi, man mano, alla mendacità degli adulti, collezionisti delle bugie più intricate.

Tutta la narrazione subirà, sul finale, una rapida discesa: Giovanna intraprende, per diversi motivi, un viaggio a Milano, anzi due. Lei stessa, immersasi nel primo viaggio della sua vita, si sentirà diversa ma normalizzata su livelli – sconosciuti - che, scoprirà, saper aggiogare.

Il finale è decisamente tranchant: ho percepito in me un senso di abbandono, come se, la protagonista, in un getto di stizza, abbia volutamente allontanato i suoi lettori dal prosieguo della sua vita, che, irreparabilmente, risulterà monca.

 
 
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