Camminare Raccontando - I profughi dimenticati della valle della Bekaa

A cura dell'associazione Ya Basta Edi Bese

6 Maggio 2020

Hanno smesso di contarli nel 2015, quando hanno superato il milione. Il Governo libanese ha deciso di risolvere il problema dei rifugiati siriani facendo semplicemente finta che non esistano. Agli operatori dell’Alto commissariato per i Rifugiati è stato categoricamente proibito di effettuare qualsiasi censimento sui siriani che fuggivano dalla guerra. Oggi nessuno può dire con precisione quanti profughi siano presenti in Libano. Un milione e mezzo, forse due, secondo alcune stime dell’Unhcr. Ma probabilmente sono anche di più.

I campi profughi più grandi si trovano nelle provincie settentrionali di questo che un tempo era chiamato il Paese dei cedri. I profumati alberi da frutto che fornirono ai fenici il legno per le loro agili navi, e che oggi sono pressoché scomparsi. Da Beirut bisogna seguire la costiera sino a Tripoli. Poi l’asfalto finisce e comincia lo sterrato che ti porta sin dentro la valle della Bekaa. Il mare azzurro lascia il posto ad una cornice montuosa e il paesaggio si fa via via sempre più desolato a mano a mano che ti avvicini al confine col deserto della Siria. A destra e sinistra cominci a contare un campo profughi dopo l’altro. Grandi tendoni raffazzonati col marchio sbiadito dell’Unhcr, baracche in lamiera davanti alle quali qualcuno ha piantato dei fiori per cercare di renderle più umane, latrine all’aperto, grosse cisterne nere per raccogliere l’acqua piovana. D’inverno, la neve copre tutto e ti viene da chiederti come riesca a sopravvivere la gente. 

I primi rifugiati hanno raggiunto la frontiera col Libano nel 2012, quando sono cominciati i bombardamenti. Una scelta obbligata perché la guerra arrivava dal sud del paese e dalla frontiera con la Turchia. Scappare verso est, verso il Libano, era l’unica via di fuga. Provenivano per lo più dalle città di Aleppo e di Homs, devastate dalle bombe. Hanno attraversato il confine sopra auto riempite di tutto quello di prezioso che avevano in casa. Nelle borse, nascondevano tutti i soldi che erano riusciti a tirare fuori dalla banca. 

“Quando ho chiuso la porta di casa, mi ricordo di aver rassicurato mia figlia e i miei nipoti dicendo loro che saremmo tornati presto, che questa guerra non poteva durare ancora per molto tempo - mi racconta Yassim. Otto anni dopo, siamo ancora qua. I soldi sono finiti, quello che di prezioso avevamo lo abbiamo venduto. Neanche la casa dove speravamo di tornare esiste più. Non so perché continuo a tenere in tasca le chiavi del portone”. 

Yassim faceva il maestro di scuola in un paese vicino Homs. Mi racconta che nella grande casa di famiglia avevano delle sedie grandi come troni, lavorate in legno ed impreziosite da listelli d’avorio. Le aveva fatte costruire suo nonno da un artigiano di Aleppo. Gli amici in visita che faceva accomodare, dicevano di sentirsi come dei re. “Quando siamo fuggiti, ho anche pensato di portarle con noi - mi confida. Perlomeno una, quella più grande dove si sedeva mio nonno poi mio padre. Ma dove potevo metterla? In auto non ci stava e poi, mi ripetevo, saremmo tornati presto. Così le abbiamo coperte di paglia e nascoste nella stanza più protetta della casa. Ma è stato tutto inutile. I bombardamenti non hanno risparmiato nulla. Qui, quando ci azzardiamo ad uscire dal campo, veniamo insultati dai libanesi; ci accusano di aver invaso la loro terra, cui dicono che dovremmo tornare a casa nostra. Ma casa nostra non c’è più. Nel piccolo paese dove vivevo non è rimasto più nessuno. Non c’è lavoro, non ci sono negozi dove comperare da mangiare. Come facciamo a tornare a casa?” 

Yassim ha affittato un garage nel piccolo paese di Tel Abbas, a pochi chilometri dal confine con la Siria. Il padrone di casa, un cristiano maronita, gli ha imposto un canone mensile che a Beirut ci affitteresti il piano di un palazzo. Ma protestare è inutile. I profughi siriani, in Libano, non hanno diritti. Anzi, ufficialmente non esistono nemmeno. Dentro quel garage, Yassim vive con la moglie, due figli, la figlia e suo marito e i loro 2 bambini piccoli. Per pagare il canone sono costretti a lavorare tutti nei campi del loro stesso padrone di casa. Il che significa che finiscono per lavorare gratuitamente. Anche questa è una prassi consolidata per i profughi siriani. Da quando è cominciata la guerra, la manodopera che si spezza la schiena nei campi di patate o di pomodori è composta soltanto da profughi siriani. “Ci pagano meno di un quinto di quanto pagavano i loro lavoratori - spiega amaramente Yassim. I poveri del posto ci odiano, perché gli abbiamo rubato il lavoro. E molte aziende hanno smesso l’uso di macchinari agricoli perché è più conveniente sfruttare noi. Ma cosa possiamo fare? Siamo costretti a dirgli anche grazie perché ci fanno lavorare!”

Con del materiale affidatogli dall’Unhcr, Yassim era riuscito a mettere su, sotto un tendone, una scuola elementare per i tanti bambini siriani che affollano i campi profughi della valle della Bekaa. “Volevo provare a regalare un po’ di futuro e di speranza a questi piccoli - spiega -. Ci sono bambini, nella valle della Bekaa,  che non sono mai andati in una scuola. Alcuni non sanno neppure leggere. Un anno fa sono arrivati i falangisti e hanno bruciato tutto. Anche i quaderni dei bambini. Anche la nostra piccola biblioteca che contava 16 libri. Hanno dato fuoco a tutto. C’era la polizia ma non è intervenuta. Hanno detto che non avevamo i permessi per fare una scuola”. 

Il business dei rifugiati siriani ha arricchito molti imprenditori libanesi. Nel settore agricolo a nord del Paese, ma anche nel settore edilizio nelle grandi città della costa. I cantieri di Beirut, di Tiro e di Sidone oramai sfruttano solo la manodopera siriana. Manodopera a bassissimo prezzo, e senza diritti. Manodopera che, per la legge libanese, non esiste neppure. I cantieri sono delle vere e proprie galere. I profughi sono costretti a vivere nei cantieri, improvvisando giacigli tra le betoniere e le ruspe. “Il padrone ci permette di dormire qui - mi racconta Khaled che incontro entro un cantiere edile a Beirut. D’estate va anche bene, ma d’inverno c’è molto freddo. Non usciamo mai, se non per spostarci su un altro cantiere quando abbiamo finito il lavoro. Qui dentro siamo al sicuro perché il padrone paga il pizzo alla polizia che non entra a fare controlli. Fuori invece la prima pattuglia che passa mi chiederebbe i documenti. E noi siriani, qui non posiamo avere documenti”. 

Khaled ha una moglie e tre bambini che vivono in un campo fuori della capitale. Non li vede da più di un anno ma riesce a fargli avere i pochi soldi che guadagna. Ci pensa il padrone, mi spiega, in cambio di una percentuale. Ad Aleppo, una vita fa, era un medico ortopedico. È scappato con la famiglia quando le truppe di Assad lo volevano arruolare. Ed a lui, mi spiega, avevano insegnato a guarire la gente e non ad accopparla. Ha raggiunto Beirut nel 2014. Aveva qualche soldo da parte ma un libanese gli ha proposto di comperare il suo negozio di frutta e verdura e poi lo ha truffato. L’uomo si è tenuto i soldi e anche il negozio. 

"C’era la mia parola contro la sua - racconta Khaled. E la mia è quella di un siriano che in Libano non conta niente. Così mi sono messo a fare il muratore così perlomeno mia moglie e i miei figli campano. A Beirut ci sono moltissimi cantieri perché la manodopera non costa niente. Sono tutti siriani come me. Una volta c’erano quelli del Bangladesh ma i padroni li hanno cacciati e preferiscono noi siriani. Siamo più ricattabili. Siamo solo schiavi".

 
 

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