Viadellironia - Le radici sul soffitto

Il debut album pubblicato il 20 novembre 2020 per Hukapan

23 Novembre 2020

Chi scrive recensioni musicali - per professione o passione che sia – sa bene che tale mansione diviene man mano più complicata quanto più il disco è interessante.

Dinanzi un lavoro discografico di un certo tenore, non ci si può porre di certo in maniera banale o superficiale.

Senza alcun intento esaustivo, tuttavia, cercherò di farvi immergere a pieno nel mondo targato Viadellironia.

La band è composta da Maria Mirani (voce e chitarra), Giada Lembo (basso), Marialaura Savoldi (batteria) e Greta Frera (chitarra), e sì, da come avete capito senza troppi calcoli algebrici, è un gruppo tutto al femminile.

Non mi soffermerò più di tanto su tale informazione anche se si rivela piuttosto importante in un mondo discografico italiano caratterizzato dalla penuria di esperienze femminili, specie nell’ambito alternative.

Non gli renderebbe giustizia perché – udite udite - la novità non è questa! Il ‘genere’ perde sul serio il tempo che trova nel momento in cui si stringe tra le mani un capolavoro musicale in termini di artwork, composizione, liriche e tematiche.

Un disco a tutto tondo che coglie il punto – e l’attenzione – immediatamente.

Stiamo parlando del debut album Le radici sul soffitto, composto e scritto dalle quattro componenti e prodotto da Cesareo (di Elio e le Storie Tese) ed uscito il 20 novembre 2020 per Hukapan.

L'artwork è stato realizzato dall'artista Dorothy Bhawl, il cui stile iconoclasta e spesso estremo lo ha portato a esporre in molte gallerie in Italia e all'estero (nel 2019 le opere di Bhawl adornano la casa e il laboratorio della stilista inglese Vivienne Westwood).

L'immagine di copertina è basata sul titolo dell'album in cui Le radici sul soffitto rappresentano una sorta di allegoria sulla morte come rinascita e, in generale, sulla fine come nuovo inizio.

L’album è ricco di riferimenti culturali e poetici sin dall’incipit che è affidato alla traccia Bernhardt, in riferimento alla celebre attrice e cinematografa francese di fine ‘800. Il riff iniziale conduce ad un piano più ‘narrato’, tra riff rockeggianti e intermezzi elettrici. Seppur in scarsi tre minuti si rinvengono plurime modulazioni di tono: la traccia diviene così variegata, in perenne evoluzione.

Nella traccia omonima, ma non solo, il cantato è sapientemente colmo, pregnante e multiforme: dal più grave all’acuto, con un’impostazione pulita e – incredibilmente – calda, matura.

Arrivati al terzo pezzo dell’album, si rinviene il singolo Ho la febbre che vede la collaborazione di Stefano ‘Edda’ Rampoldi.

La track sembra attanagliarsi ad hoc ad Edda, e la sua voce fa da bel contraltare con quella di Maria Mirani. Il ritornello abbandona sul serio a fatica la mente, quasi si incastona. È così ben costruito che si rivela armonico per quanto non-omogeneo stilisticamente.

Sono tre giorni che canto ‘Ho la febbre’ con rischi di denunce per mancato isolamento domiciliare – (ndr.)

I dieci pezzi si succedono con disinvoltura introducendo sempre più elementi peculiari: i beats di batteria in solo, le linee di basso suadenti che spezzano ora o che conducono poi, gli assoli di chitarra arzigogolati e liberi.

Le liriche fluviali si pongono come testi cantautoriali in una composizione alternative. Un intento notevolmente arduo da realizzarsi che – manco a dirlo, basta ascoltare – è raggiunto a pieno.

Su Canzone Introduttiva (non di certo un nomen omen dato che è collocata nel mezzo), sono rimasta decisamente colpita. Il tema riguarda il Sanatorio di Vichy, divenuto negli anni ’40 centro in cui detenere prigionieri "sospetti" arrestati per la Resistenza. Un pezzo di immensa bellezza e stimolante, separato a metà da un acuto quanto agguerrito assolo di chitarra elettrica.

Non ho trovato - tre le dieci - tracce somiglianti alle altre, quasi come se ogni pezzo rispecchiasse uno stato d’animo – o un tema – a sé stante, ognuno preordinato, tuttavia, a divenire manifesto interpretativo della band.

Nell’album si succedono ritmi più radiofonici (Architetto) a quelli più armonici – seppur con la permanenza di suoni elettrici e non acustici – come in Figli della Storia, collocata su un letto di arpeggi combinati a pennate strimpellate.

Non c’è che essere entusiasti di queste esecuzioni, a cui porsi sommessamente in debito, in quanto moti d’ispirazione e riflessione.

Un lavoro ben pensato, scritto e realizzato, che appare tutt’altro come un debut album. Se dovessi definirlo utilizzerei la categoria del “Romanzo di Formazione”.

Un disco a pari livello di un Classico, ricco di camei, riferimenti artistici e culturali.

Chapeau!

 
 

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