Anche l’annus horribilis merita la sua “best of”

29 Dicembre 2020

Molto spesso, nel corso della storia, le espressioni artistiche hanno accompagnato e raccontato le grandi tragedie o gli eventi più sconvolgenti dell’umanità. Si pensi, ad esempio, a come il tema iconografico del Trionfo della morte entri prepotentemente nelle arti figurative in seguito alla Peste nera, o alla stretta relazione che esiste tra la diffusione del Realismo pittorico e la peste «manzoniana» nella pittura del Seicento italiano.

C’è un altro esempio che, forse meglio di ogni altro, racconta mirabilmente il modo in cui le epidemie hanno influito nella produzione artistica e culturale. Siamo a Napoli, nel corso della pestilenza che colpì la città nel 1733, e il grande Giovan Battista Pergolesi è costretto a musicare l’intermezzo La serva padrona con un numero di cantanti e maestranze estremamente risicato: è qui che affonda le radici la grande tradizione partenopea dell’opera e del teatro povero. Una situazione, pensandoci bene, molto simile a quello che sta accadendo oggi nell’industria dello spettacolo e nelle sue maestranze.

E così anche la musica contemporanea, già da tempo in balìa di una lenta metamorfosi produttiva, è destinata a mutare ancora, e tanto, come effetto più o meno immediato della pandemia che stiamo vivendo. E non solo per via di Festival e tour cancellati, per la chiusura di innumerevoli studi e sale di registrazione, per una filiera distributiva che ha quasi completamente cancellato i negozi di dischi. È anche nella dimensione creativa, nei suoni e negli stili, che questa pandemia potrebbe lasciare il segno; nel bene, nel male o chissà in cosa.

E allora questo 2020 così tragico e controverso, ma anche così intenso e ricco merita una sua «best of», forse più degli anni precedenti. E non per il volersi adagiare nella sempre più consumata espressione «the show must go on», ma perché è nelle tradizioni intime – come la mia che da oltre dieci anni continua a cimentarsi nel gioco dei dischi più belli ascoltati nell’anno solare – che talvolta si trova il coraggio di assemblare pensieri e sogni, passioni e desideri.

Partiamo con il podio e sul gradino più alto non ci possono che essere Killer Mike e EL-P aka i Run the Jewels, il duo che dal 2013 è diventato un faro dell’hip-hop alternativo e militante statunitense. Il 2020 è stato anche l’anno delle rivolte americane, di Black Lives Matter, di quell’I can’t breathe che in breve si è trasformato da grido di disperazione e morte in urlo di speranza per un mondo più giusto ed equo. Le undici tracce di 4 - neppure a dirlo, quarto album in studio dei RTJ – raccontano la rabbia e la voglia di riscatto che in quelle settimane scuoteva l’America. Sono megafono delle rivolte e allo stesso tempo mettono in luce una condizione ancestrale che opprime le comunità razzializzate. E, soprattutto, sono undici canzoni belle e tirate che raggiungono l’apice nella parte finale, con Pulling The Pin – cantata in compagnia dell’inedita coppia Mavis Staples & Josh Homme – e la tesissima A few words for the firing squad (radiation), i cui accenni di jazz psichedelico rendono le sonorità del disco quasi totali.

Al secondo posto Milkteeth del cantautore inglese Douglas Dare, al suo terzo album dopo Whelm del 2014 e  Aforger del 2016. Il disco è prodotto ancora una volta dalla Erased Tapes del polistrumentista e produttore islandese Ólafur Arnalds, a cui Douglas deve un tributo anche in termini di atmosfere sonore. Milkteeth scivola via tra pregevolissime ballate minimali (su tutte Silly Games) e un incantevole chamber pop (meravigliosa The Playground, penultima canzone del disco), senza mai cedere il passo alla banalità o alla svogliatezza. Un vero e proprio gioiellino!

Piazza d’onore per gli eterni Flaming Lips, che da tempo ci hanno abituati a non sbagliare un colpo. American Head esce solo un anno dopo l’ottimo King's mouth, ma riesce ad essere ancora più bello del precedente. Le sonorità sono quelle ormai classiche della band di Oklahoma City, quel rock psichedelico a cui possiamo tranquillamente aggiungere l’aggettivo flaminglipsiano e che, ormai da The Soft Bulletin del 1999, riesce a intelaiare anche trame dream pop sempre molto originali. American Head inizia con la meravigliosa Will You Return/ Will You Come Downe prosegue in un crescendo di bellezza talvolta con toni più onirici (Dinosaurs On the Mountain) altre volte con ballate che toccano le corde della nostalgia e della malinconia (Mother Please Don't Be Sad).

Proseguiamo con la carrellata di altri dischi che si collocano al di fuori del “podio”, ma non per questo meno significativi. Lo facciamo abbozzando una suddivisione per macro-generi, più per semplicità narrativa che per una reale volontà di scendere a patti con le categorizzazioni musicali.

In ambito rock-pop, grandissima prova degli irlandesi Fontaines D.C., al loro secondo album: A Hero's Death è un post-punk tiratissimo e mai di maniera, capace di regalare perle come Televised Mind, a mio parere una delle canzoni rock più belle degli ultimi anni. Alti livelli anche per i Turia, che con Degen Van Licht sono alla loro terza fatica: un black metal ruvido ed emozionale, quello del trio di Amsterdam, apprezzabile anche dai non amanti del genere. Sugli scudi anche i Future Islands, meno elettronici rispetto agli esordi e sempre più votati verso ballate pop d’alta scuola, come ben dimostra Glada, traccia d’apertura di As Long As You Are. Proseguiamo con il cantautorato elegante e spigoloso della francese Jehnny Beth, che con To Love Is to Live è al suo album d’esordio dopo l’esperienza nelle Sauvages e la collaborazione con i Gorillaz. Ben più rumorosi gli Horse Lords, quartetto di Baltimora che giunge con The Common Task al suo quinto Lp: tra noise, math rock e reminiscenze kraut assistiamo per 41 minuti a una cavalcata sonora impetuosa e regale. Concludiamo con i Duma, duo proveniente dal Kenya che con l’omonimo disco segna un esordio di quelli memorabili. Per chi pensa ancora che musicalmente il continente africano sia fermo a Fela Kuti o all’afrobeat nigeriana, è arrivata l’ora di ricredersi: i Duma seminano il panico con un cybermetal originale e cattivissimo, che ha i suoi riferimenti in JK Flash o – andando indietro nel tempo – nei primi Ministry o nei Black Dice di Beaches & Canyons.

Passando al mondo dell’elettronica, ha strabiliato più o meno tutti l’esordio della londinese Beatrice Dillon, dal titolo Workaround (disco dell’anno per la storica rivista inglese The Wire): una riuscitissima combo sonora che racchiude in sé tappeti ambient e downtempo, pennellate jazzy e souleggianti, astratte pulsazioni che ricordano il primo Alva Noto. Molto complesso, ma allo stesso tempo ben confezionato, il quarto album di Nicolas Jaar, Cenizas. Il composer newyorkese di origini cilene, che quest’anno è uscito anche con un altro disco - Telas, sempre per i tipi della Other People - ci regala un mosaico coraggioso e allo stesso tempo compatto: molto gotico nella prima parte, più vicino all’elettroambient delle prove precedenti nelle tracce successive, con il trip pop finale di Faith Made Of Silk che merita ascolti ripetuti. Decidono di strafare quest’anno gli Autechre, il duo londinese che dal 1993 è un vero e proprio faro della musica elettronica sperimentale. Due album, Sign e Plus, apparentemente molto diversi tra loro eppure così simili nella loro capacità di trasmettere emozioni attraverso aritmie compulsive e basslines liquide. In particolare il primo dei due - Sign, uscito a ottobre - impressiona per la capacità di tenere insieme ricerca sonora e intrattenimento melodico.

Non meno interessante l’anno trascorso per la black music. Untitled (Black Is), terzo album in studio del collettivo londinese Sault, è un lavoro compatto e intenso, a dispetto delle venti tracce che lo compongono. Un disco politico - anche questo come 4 dei RTJ uscito a ridosso dell’uccisione di George Floyd e delle successive rivolte - in grado di immergere temi di denuncia sociale in un impianto sonoro che gira a 360°, attorno al soul, immergendosi talvolta anche in territori vicini ai Massive Attack, come accade nella bellissima Monsters. Meno misteriosa e più esplicita è la verve militante dei Mourning [A] BLKstar, che provengono dall’altra sponda dell’Atlantico, e precisamente da Cleveland. «We are a multi-generational, gender and genre non-conforming amalgam of Black Culture dedicated to servicing the stories and songs of the apocalyptic diaspora» è la frase di presentazione sul loro sito e la dice lunga sui loro riferimenti politici, culturali e musicali. The Cycle, oltre a un esplicita condanna del trumpismo e del «razzismo di stato» targato U.S.A., è denso di episodi jazz-soul classicheggianti che si alternano con brani in cui primeggia la componente electro-funk, mai strabordante.

Addentrandoci in versanti più sperimentali, segnaliamo Lamentations, ennesimo capolavoro di William Basinski uscito per la Temporary Residence Limited, le cui atmosfere cupe lo rendono perfetto ritratto dell’anno che sta per finire. Motus di Thomas Köner, uscito per Mille Plateaux, coniuga sapientemente la dub rarefatta tipica del suo suono con un ambient isolazionista che vira dalle parti degli Stars of the Lid. E ancora Arrow di Noveller, al secolo Sarah Lipstate, già parte dei Parts & Labor, che rilegge con grande consapevolezza le avanguardie a cavallo tra ’70 e ’80, con un particolare riferimento al Glenn Branca di The Ascension e al Brian Eno di Music For Airports. Per finire il free jazz ipnotico della poetessa e musicista statunitense Moor Mother, il cui vero nome è Camae Ayewa, che in Circuit City si sofferma sul tema del diritto alla città, e in particolare del diritto all’abitare, raccontando a modo suo uno spazio urbano fatto di diseguaglianze e distopie, violenze e discriminazioni.

Concludiamo la carrellata con due dischi italiani. Il primo è quello del cantautore toscano Lucio Corsi, che con Cosa faremo da grandi dipinge un memorabile affresco dell’Italia pre-Covid (il disco è uscito il 19 gennaio), con una mano tesa verso la canzone d’autore più eclettica del panorama nazionale (Ivan Graziani, Alan Sorrenti) e un’altra verso il glam rock del Bowie più scanzonato. Il secondo è How, dei quattro polistrumentisti che formano il progetto Dueventi, un capolavoro inaspettato capace di shakerare con cura il jazz-rock dei nostrani Zu, con il pop psichedelico dei Beatles di Sgt. Pepper's e addirittura con il trip pop dei primi Portishead.

Ricapitolando:

1         Run the Jewels, RTJ$ (BMG Rights Management)

2         Douglas Dare, Milkteeth (Erased Tapes)

3         Flaming Lips, American Head (Bella Union)

Altri (in ordine alfabetico):

Autechre SIGN (Warp)

Lucio Corsi, Cosa faremo da grandi (Sugar Music)

Beatrice Dillon, Workaround (Pan)

Dueventi, How (Murmur Records)

Duma, Duma (Nyege Nyege)

Fontaines D.C., A Hero's Death (Partisan)

Future Islands, As Long As You Are (4AD)

Horse Lords The Common Task (Northern Spy)

Jehnny Beth, To Love Is To Live (20L07 Music)

Moor Mother, Circuit City (Don Giovanni)

Mourning [A] BLKstar, The Cycle (Don Giovanni) 

Nicolas Jaar, Cenizas (Other People)

Noveller, Arrow (Ba Da Bing!)

Sault, Untitled (Black Is) (Forever Living Originals)

Thomas Köner, Motus (Mille Plateaux)

Turia, Degen Van Licht (Eisenwald)

William Basinski, Lamentations (Temporary Residence Limited)

 
 

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