"Feast of Vultures": la recensione dell'album di debutto degli Hawery

10 Gennaio 2021

Lo stoner è quel sottogenere dell’heavy metal che vede la sua nascita, il suo Big Bang, per così dire, nei lisergici anni 70, con la pubblicazione di Master of Reality dei Black Sabbath. Con i riff lenti e tetri di Tony Iommi, resi ancor più pesanti dal downtuning di un tono e mezzo, il disco getta le basi a quelli che saranno i binari del genere. La massima espressione dello stoner arriva probabilmente negli anni ‘90, nei dintorni di Palm Desert, California, con i Kyuss di Blues for the Red Sun, per poi inglobare le più svariate influenze, dal metal estremo all’hardcore punk, per arrivare allo sludge di band come Eyehategod, Crowbar e al doom degli Electric Wizard.

C’è un filo sottile che va dalla Gran Bretagna dell’inizio degli anni ’70 alla California del 1991, fino alla Berlino del 2019, luogo e anno in cui gli Hawery registrano il loro album di debutto Feast of Vultures per Karma Conspiracy Records.

Cosa accomuna tutte le band citate, oltre al consumo di droghe leggere a scopo ricreativo (da cui il termine “stoner”, da “stoned”: “fatto, fumato”)? Sicuramente, atmosfere psichedeliche,  ritmi rallentati e ipnotici, riff monolitici, accordature basse. Tutte caratteristiche che ritroviamo negli Hawery.

Il quintetto tedesco si forma nel 2017, a seguito di precedenti esperienze in ambito black, thrash e hardcore punk e pubblica il proprio debutto a ottobre 2020.

Il disco è racchiuso da un artwork che ricorda qualche stampa giapponese, rappresentante un avvoltoio in volo, alle spalle un sole rosso sangue, come quello che traccia una linea  che parte dal becco dell’animale, il quale ha evidentemente concluso il proprio pasto.

La coppia di canzoni in apertura (Moonstruck e Dark Woods) mette subito le carte in tavola: classico e granitico stoner dai suoni compatti, soffocanti e claustrofobici, abbondanza di riff heavy, atmosfere oppressive.

La band stessa conferma quali siano le sensazioni che intende comunicare con questo lavoro: «Feast of Vultures racconta la storia di uno scenario in qualche modo distopico, in rovina: una lotta per la sopravvivenza in un mondo pieno di minacce e paure primordiali. Questo disco parla di isolamento e pazzia e di come affrontarle e superarle, devastazione e disperazione sono strettamente connesse a speranza e rinascita

Per i nerd della strumentazione, un sound di questo tipo era ottenuto da Josh Homme (chitarrista dei già menzionati Kyuss, e successivamente dei Queens of the Stone Age) suonando esclusivamente con il selettore dei pick-up al manico e collegando la propria chitarra a un ampli per basso. In aggiunta, pedali fuzz a profusione.

Le successive Four Walls ed Eternal sleep sono quelle che maggiormente risentono delle influenze doom psichedelico. C’è anche spazio per un intervallo strumentale, Solitude, di chiara estrazione sabbathiana (a partire dal titolo), per poi tornare ai riff stoner della title track.

L’influenza hardcore punk è piuttosto evidente sin dalla quasi completa mancanza di assoli, ma questo non significa che manchi la melodia, o sezioni strumentali, seppur brevi.

Cosa si può chiedere di più allora ad un lavoro solido, ben suonato ed evidentemente ben inquadrato negli archetipi del genere? Forse, di spingersi oltre i binari ben rodati dello stoner/sludge, per osare qualche sperimentazione in più in ambiti che la band suggerisce di conoscere altrettanto bene, ovvero gli echi psichedelici che si intuiscono in Solitude e in Eternal Sleep. Questo forse potrebbe permettere alla band quel salto di qualità che li porterebbe ad emergere dalla massa come una delle nuove band più promettenti del panorama.

 
 

 
 
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