Mercè Rodoreda

La poesia delle piccole cose

13 Gennaio 2021

Immergersi nelle pagine di Mercè Rodoreda vuol dire entrare in un’atmosfera particolare. La sensazione è che il mondo si sia all’improvviso semplificato, e si esaurisca nei luoghi in cui i personaggi vivono. Le strade abbacinanti di Barcellona, la casa che io non posso fare a meno di immaginare bianca, con i pavimenti in piastrelle di maiolica, se si parla de La piazza del Diamante. I giardini estivi, pieni di fiori e di foglie carnose e il mare che luccica in lontananza, se si parla de I giardini sul mare.  Le case che Cecile continua a cambiare, alcune squallide, altre suntuose, sempre comunque disordinate e semibuie, se siamo ne Via delle Camelie.

Tutto diventa così semplice e pulito, almeno ad un primo sguardo, perché ogni cosa è filtrata dagli occhi dei protagonisti, che parlano in prima persona e che sono persone semplici. Il punto di vista del personaggio diventa verità. Mi spiego meglio, raccontandovi la mia esperienza di lettura con questa autrice.

Il primo libro in cui mi sono tuffata è stato La piazza del Diamante, complice una bellissima ristampa de La Nuova Frontiera. La protagonista è Natalia, una giovane donna, che, come tante donne di quell’epoca (si parla degli anni ’30), accetta ciò che la vita e suo marito le impongono, rassegnandosi perfino a cambiare il proprio nome (sarà infatti chiamata da tutti "Colometa"). Lei è la narratrice, quindi lei racconta le fatiche e le delusioni che ogni giorno si trova ad affrontare. L’impressione, leggendo, è che lei si arrenda, che addirittura non sia consapevole di essere oppressa, di non essere libera. Guarda al marito sempre con grande tenerezza, nonostante egli si imbarchi in un allevamento di colombi che poi ricade completamente sulle spalle della ragazza e che poi parta per la guerra civile, abbandonandola con due bambini piccoli. Non c’è rancore, e questo mi ha spiazzato. Mi infastidiva il suo voler sempre indorare la pillola, il suo chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie, affrontandole remissivamente. Volevo scuoterla, farle capire che doveva ribellarsi.

Solo pensandoci molto, in seguito, ho capito la preziosità del punto di vista di Natalia, e la sua forza e determinazione. La sua non era un’arresa definitiva, ma solo un cercare di vivere serenamente in una situazione difficile e da cui le era, siamo onesti, pressoché impossibile scappare. Con due figli, senza un lavoro, la dipendenza economica dal marito era assoluta. E quindi lei si rifugia nelle sue fantasie, nei suoi sogni, per poi finalmente riuscire a liberarsi di Colombetta e diventare la donna sicura e indipendente che sotto sotto era sempre stata. Natalia racconta la sua verità, senza fronzoli, con parole dirette. E questo consente di empatizzare con lei, nonostante il fastidio di vederla passiva e dipendente, e di vederla davvero come persona complessa e completa, e mai ingenua.

Una sensazione simile si prova anche tra le pagine di Via delle Camelie. Cecilia, una ragazza abbandonata da neonata e cresciuta con una profonda inquietudine dentro, salta da un amante all’altro, amanti che la sfruttano, la imprigionano, la maltrattano. Eppure, leggendo sembra che Cecilia non abbia altra scelta, e, ancora una volta, forse è davvero così. E non per questo, non perché Cecilia, così come Natalia, non hanno avuto la forza di ribellarsi, perdono dignità e valore agli occhi del lettore. È una verità anche questa, che non tutte le donne riescono o sono riuscite (soprattutto un tempo) a scardinare determinate dinamiche dalle loro vite, ma questo non fa di loro donne peggiori o necessariamente deboli.

Tutti i romanzi di Rodoreda sono intrisi di questa semplicità, che parte dal linguaggio e dal simbolismo, strumento letterario costante nelle sue opere. Sono storie piccole, che partono dagli oggetti quotidiani, o dai dettagli apparentemente più insignificanti. Come il sassolino che, in Giardino sul mare, diventa una sorta di simulacro dell’amore che l’anziano giardiniere prova ancora per sua moglie, ormai morta da molto. Come dice Chiara Valerio in un’intervista, Rodoreda parte dagli oggetti per definire le leggi del mondo secondo cui le persone amano e si muovono. I particolari sono infatti forse l’unica cosa che può avere eco nelle persone, in cui possono riconoscersi.

La scrittura di Rodoreda, con questo suo aggrapparsi ai piccoli segni quotidiani, è stato paragonata a Proust; in effetti anche per lo scrittore francese le cose apparentemente insignificanti sono rivestite di grande importanza (basti pensare alle madeleine!), ma Proust le utilizza come ponte per i ricordi, la memoria. Alla nostra autrice catalana, invece, basta evocare sensazioni famigliari e comuni, e lo fa con grande maestria.

I libri di Rodoreda sono un po’ come uno specchio d’acqua limpido in cui tuffarsi, non si può non apprezzare la sua scrittura breve e sincera, le atmosfere e i toni quasi da favola, che attraverso le parole del narratore non cadono mai nel melodramma.  Tutto ciò la rende una scrittrice tra le più amate in Spagna, nonostante in Italia sia poco conosciuta. Non mi resta che consigliarvi di scoprirla attraverso le pagine delle sue opere.

Mercè Rodoreda

 
 
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