Intrecci Etici, intervista al documentario sulla moda sostenibile in Italia

Due chiacchiere con i registi sulla realizzazione e gli obiettivi del girato

25 Febbraio 2021

Oggi vi voglio parlare di un documentario fresco d'uscita che con un linguaggio visivo e verbale fresco e diretto, ma al contempo familiare e caloroso, riesce a raccontare al grande pubblico la filiera della moda sostenibile in Italia, un paese dove la moda stessa è rinomata come pilasto del "made in Italy" ma che spesso viene ancora legata a fenomeni di massa, all'interno dei quali il concetto di sostenibilità è lasciato da parte o usato per il greenwashing di ordinanza. 

Lucia e Lorenzo, i registi e produttori del documentario hanno risposto alle mie domande per far scoprire meglio dal punto di vista cinematrografico e produttivo il loro lavoro, e li ringrazio in anticipo per il tempo prezioso dedicatomi.

Usando le loro parole «Intrecci Etici – La rivoluzione della moda sostenibile in Italia è un documentario realizzato nell’autunno del 2020 da Lucia Mauri e Lorenzo Malavolta e prodotto da LUMA video. Dal 14/01/21 è disponibile in esclusiva sulla piattaforma streaming di Infinity Tv: Intrecci Etici è stato infatti scelto all'interno dell'Infinity LAB di Mediaset, un progetto che supporta giovani registi e filmmaker indipendenti che hanno una storia da raccontare.

Intrecci Etici racconta come in Italia sia in atto una rivoluzione per rendere il settore moda più sostenibile».

Buona lettura..

1. Intrecci Etici: come è nato questo concept documentaristico?

«L'idea di creare un documentario sulla moda sostenibile in Italia è nata in maniera molto spontanea. Come per altre produzioni, la voglia di esplorare un tema parte da una nostra ricerca personale.

I vestiti fanno parte della nostra quotidianità quindi ci siamo chiesti come fare scelte più sostenibili riguardo i capi che compriamo e indossiamo. È stato lì che abbiamo scoperto le criticità della fast fashion e del settore moda in generale: dalla sovrapproduzione agli enormi sprechi di vestiti invenduti, a problemi sociali dovuti a retribuzioni non eque fino agli enormi danni ambientali.

Durante questa nostra ricerca, abbiamo anche notato un movimento contrario, meno conosciuto, quello della slow fashion, che si opponeva ai principi "veloci" di una moda usa e getta. La nostra scelta è stata quella di valorizzare chi in Italia porta avanti questa rivoluzione slow: dai produttori ai consumatori e mostrare che il cambiamento non solo è in atto, ma coinvolge tutti noi che possiamo prenderne parte.»

2. Organizzazione del lavoro: come avete operato le riprese e quali scelte registiche avete fatto nella realizzazione finale?

«Fin dall'inizio, la nostra scelta è stata quella di occuparci interamente della realizzazione del documentario: dalle decisioni editoriali, alle riprese, alla post-produzione. Forse non tutti lo sanno, ma dietro la produzione di Intrecci Etici ci siamo solo noi due. Questo ci ha permesso di avere controllo su tutte le scelte registiche e trasmettere il messaggio che avevamo in mente esattamente come ce lo immaginavamo.

Quello a cui tenevamo di più era realizzare un documentario con un linguaggio semplice. Nonostante l'ampiezza del problema, volevamo fosse completo dal punto di vista delle tematiche affrontate, con spiegazioni chiare e incisive di concetti economici complessi. Volevamo creare un documentario inclusivo: che le persone si sentissero parte del cambiamento, che considerassero il problema come un qualcosa che riguarda anche loro e venissero stimolate a cambiare, motivate dal fatto che anche i cambiamenti più piccoli possono fare la differenza.»

3. Storytelling: secondo voi qual è la necessità, o quali sono le necessità, a cui i produttori etici cercano di rispondere col loro lavoro?

«Secondo noi, attraverso il loro lavoro cercano di rispondere alla voglia del consumatore di acquistare un prodotto sicuro, che non abbia un impatto negativo sulle persone e sul pianeta, comprato da un produttore di cui fidarsi.

In generale c'è ancora tantissima confusione riguardo il tema della moda sostenibile: spesso mancano informazioni a disposizione dei consumatori che vorrebbero saperne di più su come sono stati fatti i vestiti, ma queste informazioni non vengono date al cliente finale. Al massimo, viene comunicata la loro composizione o lo stato in cui sono stati prodotti, ma non è abbastanza.

Anche per questo le persone hanno difficoltà a comprare moda sostenibile. Non siamo stati abituati a pensare alla moda come qualcosa di pericoloso per noi, per il pianeta, per gli altri, però i consumatori si stanno svegliando, si parla sempre di più di sostenibilità e c'è sempre più richiesta. I produttori cercano di rispondere proprio a questo bisogno del consumatore di acquistare capi d'abbigliamento etici e sostenibili.»

4. Empatia: secondo voi quali sono gli elementi del lavoro delle attività intervistate a cui il pubblico può sentirsi più vicino?

«Secondo noi, prima fra tutte l'artigianalità. C'è sempre un elemento artigianale che caratterizza le attività che abbiamo coinvolto, ognuna con una sfumatura diversa. Ci sono aziende in cui il saper fare è tramandato da generazioni, altre attività più giovani ma con lo stesso approccio artigianale alle cose. La manualità di questi artigiani è magnetica: da Carolina Emme che taglia e cuce abiti agli artigiani di Mario Doni che realizzano a mano i sandali in pelle.

Oltre a questo, il loro mindset. Quello che ha colpito anche noi, è la voglia di ciascuna attività di interrogarsi continuamente su come diventare più sostenibile, indipendentemente dalla generazione di cui fa parte. Questo non sentirsi mai sostenibile al 100%, questa tendenza a migliorarsi sempre, a vedere la sostenibilità come un percorso che richiede tempo e traguardi graduali.»

5. Legami: fra tradizione e innovazione quanto la prima ha e sta ispirando la seconda? Ed esiste una tradizione artigianale italiana che viene rinnovata da queste attività?

«Tantissimo, assolutamente. Questa tradizione artigianale è il pilastro di tutte le attività coinvolte: sia quelle giovani che quelle consolidate da anni. Pensiamo all'azienda Rifò che ha ripreso la tradizione centenaria dei cenciaioli di recuperare scarti tessili e rigenerarli creando un filato riciclato. Ecco, Niccolò Cipriani (il fondatore) è riuscito a creare un'azienda giovane che trasforma questa tradizione pratese poco conosciuta in valore aggiunto, soprattutto nel momento storico in cui viviamo, in cui la sostenibilità è fondamentale.

Allo stesso modo, l'azienda Berto Industria Tessile è nata nel 1887. Negli anni, è riuscita a trasformare il suo know-how di produzione di tessuti denim, modificando i processi e rendendoli più sostenibili, con nuovi macchinari che permettono di riutilizzare le acque di scarico o ridurre le emissioni di Co2. Questo è stato possibile solo con una continua ricerca di innovazione.

Secondo noi è proprio questa la base dell'innovazione: imparare dalla nostra tradizione artigianale italiana e pian piano capire come intervenire per migliorare i processi in ottica più sostenibile.»

 
 
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