Storia del Rock: cinque canzoni rare per riscoprire i Pink Floyd

4 Marzo 2021

Dalle serate all’UFO Club al mastodontico concerto in laguna, passando per l’anfiteatro vuoto di Pompei e i concerti dietro il Muro. I Pink Floyd sono riusciti ad imporsi su ogni generazione, con il loro sound liquido e l’immaginario popolato di maiali volanti, martelli in marcia, piramidi di luce. La loro arte sembra quasi materializzare i nostri fantasmi. Non saranno geni della melodia, ma hanno davvero spinto la musica oltre: nelle penombre della psiche, al limite fra quello che ci rende folli e quello che ci rende umani. Con loro, la musica smette definitivamente di essere una questione radiofonica e diventa opera d’arte totale. Nella loro discografia c’é ben più di Wish You Were Here, Another Brick In The Wall e Comfortably Numb. Scopriamo alcune delle loro gemme nascoste.

Julia Dream (lato B di It Would Be So Nice, 1968)

Assumere LSD perfino nel té della colazione aveva trasformato Syd Barrett non nel Cappellaio Matto, ma in un vegetale. Occorreva rimpiazzarlo. Waters tenta di scrivere una canzone, il nuovo chitarrista (belloccio, tra l’altro) acconsente a fare il frontman e cantare. E il risultato non è affatto male. Sembra una ninnananna inzuppata nell’acido. Ma l’infantilismo panico di Syd è sostituito da un’introversione più adulta e vulnerabile. La stessa che sboccerà nei capolavori in arrivo.

Set The Controls For The Heart Of The Sun (da A Saucerful Of Secrets, 1968)

Da una cellula di tre semplici note si dipana uno dei brani più spettacolari dei nostri. Dal vivo assumeva proporzioni spaventose, passando dal bisbiglio al rumore puro, come nella  versione di Pompei. Misterioso come il confine tra il cosmo e la psiche. Più buio di tutto, anche del lato oscuro della luna.

Summer ’68 (da Atom Heart Mother, 1970)

Waters era l’uomo con le idee. Gilmour quello che sapeva suonare e cantare. E Wright? E’ quello lì sullo sfondo, nascosto dietro il muro di tastiere. Eppure alcune delle più belle progressioni armoniche sono sue. E sua è anche questa canzone, capace di compattare la suite della mucca atomica in quattro minuti di splendido pop sinfonico.

Echoes (da Meddle, 1970)

Il primo, forse insuperato capolavoro dei Pink Floyd (uccidetemi, se volete). Un brano mastodontico eppure semplice, capace di tenere insieme la forma-canzone, l’improvvisazione strutturata e la sperimentazione più estrema, libero dal peso della meticolosa artificiosità dei più celebri capolavori sucessivi: come dimenticare la sezione centrale, in cui la chitarra di Gilmour imita i canti delle balene? Cose mai sentite prima. E forse mai più. 

When The Tigers Broke Free (singolo, 1982)

Tuo papà è morto ad Anzio, Waters, lo sappiamo! Ce l’hai ripetuto talmente tanto che a volte vorremmo tenere per i Nazisti. Però. Sentite questo coro militare. Sentite il canto che mette a nudo i ricordi infantili, per poi salire di ottava e rivivere la battaglia. Quando Roger urla “no one survived from the Royal Fusiliers Company C” io, giuro, non riesco a trattenere una lacrima. Incredibile come questo gruppo di alieni prog sappia essere, in realtà, anche il più umano e commovente di tutti.

 
 
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