Condividere e mantenere Memoria :: Rita Tekeyan

di Mirco Salvadori

16 Luglio 2021

Condividere e mantenere la Memoria, questi i due capisaldi del lavoro musicale di Rita Tekeyan. Testimone diretta della guerra civile del Libano, discendente di una famiglia che ha sofferto la persecuzione perché Armena, la musicista e cantante residente sulle sponde del lago di Garda, ci racconta il suo sofferto e per certi versi liberatorio, percorso artistico.

La domanda iniziale riguarda il tuo percorso. Rita Tekeyan, qual'è il tuo racconto artistico.

Dai miei lontani ricordi, da bambina il mio caro padre mi portava con lui al coro della Chiesa Armena dove cantava, inoltre ho frequentato la scuola delle suore armene dove il canto era un elemento importante. Mio zio materno era un batterista che aveva la sua band e ha girato i locali della Norvegia e Danimarca per 10 anni, suonando musica dal vivo; mi ha avvicinato alla musica in generale, agli strumenti musicali in suo possesso e in particolare alla musica dei Beatles, Elvis, Elton John, Michael Jackson ed altri. A casa mia si ascoltava musica di varie culture, dalla musica armena di Komitas, ai canti tradizionali armeni, alla musica araba egiziana classica di Oum Kalthoum, musiche mediorientali, la musica leggera francese, Charles Aznavour, Dalida, gli ABBA e tante altre. In adolescenza ho frequentato il conservatorio libanese studiando pianoforte e solfeggio, prendevo anche lezioni di canto lirico classico. In quel periodo prendevo anche lezioni di danza classica, moderna e contemporanea.Mio padre appassionato di arte e pittura mi ha trasmesso la passione per il disegno, la pittura, la fotografia e la scultura, tutte discipline che ho avuto la fortuna di esplorare e sperimentare durante i miei studi all'Università Americana di Beirut dove ho conseguito la laurea in Architettura. L’arte in tutte le sue forme mi affascinava, in architettura ho sviluppato anche la passione per la natura, la sostenibilità e la sensibilità all’impatto ambientale e sociale. In adolescenza ho scoperto la musica pop, metal e rock anni ‘80 (Queen, Depeche Mode, Metallica, Scorpions),  poi negli anni successivi ho approfondito le mie ricerche ed esplorazioni della musica anni’70 , i Doors, Pink Floyd, Janis Joplin, Bob Dylan, Led Zeppelin, Black Sabbath, David Bowie, il dark dei Bauhaus, i System of a Down e Serj Tankian. Durante gli anni accademici cantavo occasionalmente nella band dell’Università, poi, dopo essermi trasferita in Italia, ho iniziato a cantare regolarmente in una band con la quale eseguivamo brani classici rock e pop. Ho iniziato a scrivere la mia musica, in particolare i miei testi quando ho iniziato a vivere la guerra da distanza, volevo esprimere la mia rabbia e incapacità di cambiare le cose nel vedere le persone che amo nel pericolo della guerra e i luoghi che conosco di nuovo distrutti. Cosi nel 2015 è uscito il mio EP di debutto ‘Manifesto Anti-War’ prodotto dall’etichetta indipendente Rosa Selvaggia, mentre erano in cantiere i brani del mio nuovo album LP ‘Green Line’.

Esiste un vocabolo che da sempre ti accompagna, una parola che noi conosciamo solo per sentito dire, perché tramandata da padri o nonni ma mai vissuta in prima persona. Tu la guerra l'hai vissuta sulla tua pelle di bambina. Parlacene.

È la guerra civile a Beirut, che è durata dal 1975 al 1990. Sono nata quando la guerra era già iniziata, ho vissuto la mia infanzia durante il periodo di guerra, non ho mai pensato alla guerra perché faceva parte della nostra normalità e quotidianità. Eravamo abituati a convivere con la guerra e niente ci fermava. Non c’era lo spazio e il tempo per la paura e il terrore. Per noi bambini poi era tutto un gioco spensierato con voglia di curiosità, esplorazioni, avventure e sfide. Alcuni brani del mio album ‘Green Line’ parlano di storie di guerra ed eventi specifici. La main track, che ha dato titolo al disco, racconta di quella linea verde che divideva la mappa di Beirut in Est ed Ovest nel periodo della guerra civile, dove la divisione non era solo sulla mappa ma era anche socio-culturale e religiosa. Quella zona di Beirut era la parte più devastata e pericolosa della città. Il brano tratto da una storia vera, parla di una donna, una madre molto coraggiosa che viveva a Beirut Est e lavorava nella parte Ovest della città. Questa madre doveva attraversare queste barriere, questa zona pericolosa rischiando la vita due volte ogni giorno. La guerra a Beirut era caratterizzata dalle vetrine dei negozi coperte di sacchi di sabbia e mattoni in blocchi di cemento come racconta ‘Forêt Noire’, questi spazi che oramai facevano parte dell’arredo urbano diventavano luoghi dove i bambini giocavano. La guerra era normalità, si aspettava la frase del cessate fuoco in radio per riprendere le attività quotidiane, ma anche infrastrutture danneggiate, mancanza di acqua ed elettricità, cosa alla quale ci si adatta dopo lunghi anni di guerra e si prova a trovare soluzioni. Infatti il brano ‘Nora’s Tree’ racconta come tra gli anni ’80 e ’90 le cose sono cambiate; mentre negli anni ’80 si illuminava a candela poi c’erano le lampade a gas, le lampade fluorescenti attaccati alla batteria della macchina, tutto artigianalmente montato, poi invece c’erano i generatori, all’inizio solo i ricchi privilegiati potevano permetterselo ma dopo negli anni ’90 erano diventati a disposizione di tutti nei vari quartieri. Si pagava sia la bolletta allo stato che ai privati, proprietari dei generatori. Inquinamento e corruzione erano 2 termini molto comuni in quel periodo. Anche la fornitura dell’acqua durante il periodo della scarsità è cambiata tra i 2 decenni; all’inizio si trasportavano litri di acqua in taniche di plastica su per le scale, poi invece c’erano a disposizione le cisterne di acqua pagando il servizio arriva a casa, anche in questo caso si pagano doppie bollette allo stato e ai privati. Non c’era controllo sulla qualità di acqua fornita, c’erano speculazioni, corruzione. ‘Nora’s Tree’ denuncia anche come l’uomo distrugge la natura, quell’albero magnifico e maestoso che aveva sopravvissuto tutti gli anni di guerra è stato abbattuto dall’uomo che vuole sfruttare il terreno per costruire. ‘Abri’, sono i sotterranei dove ci si nascondeva dalle bombe, abitando al quarto piano di un edificio in cemento armato, quando iniziavano i bombardamenti correvamo fuori casa, facevamo le scale nel buio totale, a suono di ‘fuochi d’artificio’ ma erano bombe, nonostante illuminavano il cielo buio come uno spettacolo. Bisognava correre in strada prima di raggiungere lo scantinato di un palazzo vicino. Il nostro ‘Abri’ era il laboratorio di una fabbrica di mobili in legno, con odore di legno, polvere di legno, vernice, grossi macchinari pericolosi. C’erano tante famiglie con bimbi piccoli tutti che dormivano per terra su delle coperte di lana adagiate. Forniti di thermos con il caffè caldo o il tè e soprattutto del cibo. Non so come i genitori potevano tenere a bada loro bimbi in uno spazio cosi pericoloso e certo non adatto ad abitazione. Ma nella guerra questi temi diventano secondari. Uno spazio apparentemente sicuro al riparo dalle bombe, ma comunque i polmoni vengono danneggiati piano piano. ‘Rooftops’ descrive altri spazi, luoghi di socializzazione, la spensieratezza e avventure dei bambini che vogliono giocare, sui tetti pericolosi (a terrazza in cemento armato) , quello che aveva portato il modernismo di Le Corbusier e la colonia francese.  Ci arrampicavamo sui tetti, avevamo acceso un fuoco bruciando dei vecchi vestiti, ballavamo intorno al fuoco saltandoci sopra, eravamo completamente fuori controllo. I Rooftops a Beirut sono spesso degli spazi decadenti con cavi elettrici, e tubi di acqua che perdono, il monossido di carbonio che esce dai camini che scaldano l’acqua. Uno spazio non adatto ai bambini, nonostante ciò quello era il nostro regno dove giocavamo e costruivamo delle tende con le lenzuola appese. Chi vive la guerra, si trova nella guerra, non vuole la guerra, nessuno vuole la guerra, si trova lì, deve accettare, deve reagire e cercare di sopravvivere. Purtroppo il calvario della mia città natale non è finito con la guerra, va avanti ancora oggi, c’è una grave crisi economica.

Prima di riprendere il filo del discorso indagando anche sulle origini della tua famiglia, sull'importante significato che hanno per te e di inestimabile valenza per la memoria, vorrei affrontare il tema musicale. Come artista e dal punto di vista estetico e di contenuti musicali, Rita Tekeyan si pone nel filone gotico, anche se ascoltando il tuo ultimo lavoro, personalmente ho percepito una sorta di "volontà liberatrice" nei confronti di questi schemi. Perché la scelta della penombra nella quale da sempre ti vedo immersa?

Sono sempre stata affascinata dalla penombra, dal romanticismo che contiene, a scuola studiavamo letteratura francese e i poeti francesi, ero particolarmente affascinata da Beaudelaire e Verlaine. Nel mio EP ‘Manifesto Anti-War’ ho dedicato un brano a Beaudelaire una sua poesia ‘La Mort des Amants’ alla quale ho dato voce con la musica di Nikita Rosa Selvaggia. Sono affascinata da paesaggi e atmosfere cupe. C’è anche un libro che si intitola “Why do Architects Wear Black?” da architetto, mi sento rappresentata e mi trovo a mio agio, è un colore / non colore che assorbe tutto ciò che ha intorno, è affascinante e misterioso, senza tempi. Sono appassionata del periodo gotico, l’architettura gotica, trovo anche tanta eleganza nel periodo vittoriano. Trovo magia nel mondo misterioso e nell’occulto. Il video del mio brano ‘Devil’s OB’ a cura del regista Enrico Fappani è stato girato nei boschi di Brescia, sulla Mella, in un’area dove vivevano le streghe bresciane nel ‘500 prima della persecuzione e a quanto pare era l’epicentro di tutta l’Europa di congregazione di streghe. Sono anche molto appassionata della natura in realtà, e lì trovo tanta luce ed ombra, non solo penombra. I temi della guerra e del genocidio purtroppo sono avvolti nel nero con il rosso del sangue che le marchia.

 In aprile è uscito il tuo ultimo lavoro per la siciliana Seahorse Recordings intitolato Green Line. Non è un semplice album di canzoni e suoni, è qualcosa di assai più importante (e mi scuso per chi pone la musica sempre in primo piano) soprattutto per la diffusione e il mantenimento della memoria. Amerei ne parlassi in modo approfondito visto che contiene argomenti e esperienze indelebili come la guerra e le persecuzioni di un popolo.

La memoria è un tema personale, nel mio caso si tratta di pezzi di memoria (ricordi) ricostruiti nella mia mente, messi insieme in un nuovo ordine, in una nuova dimensione, la dimensione della parola e della musica. Tutto è nato dai ricordi, dalla rabbia che ha risvegliato questi ricordi, che erano lì, ci sono sempre stati, ma non ci pensavo. Vivere la guerra da distanza è stato l’apparente motivo di questo risveglio. I brani parlano di dettagli di guerra; queste informazioni non fanno notizie, non è esattamente la guerra, ma sono ricordi comuni a tutti i ragazzi della mia generazione che hanno vissuto la guerra come me in Libano. Una memoria collettiva che unisce le persone, un popolo intero che condivide questi ricordi. Tanti vogliono dimenticare, cancellare le tracce di un periodo doloroso, è come nel restauro dove ci sono strati di muri, ogni strato è colmo di storia e i muri sussurrano. Ogni spazio ci racconta del luogo, delle persone che ci hanno vissuto. Come per esempio uno spazio in confine tra 2 paesi in conflitto, quello spazio / non spazio, quel luogo in mezzo è caratterizzato dal silenzio, dal vuoto, dal nulla, nello stesso tempo è uno spazio così significativo che divide. Un altro luogo significativo colmo di memoria, sono le case abbandonate delle persone che sono fuggite dalla guerra o nel peggiore caso sono state assassinate ma le loro case, sono lì, ancora con oggetti del passato che raccontano le loro storie, in Libano durante i miei studi di architettura ho lavorato su entrambi questi luoghi che mi hanno segnato profondamente. Ho voluto preservare i ricordi della mia infanzia, creando questa fiaba per renderli intoccabili dove anche la decadenza dei Rooftops contiene la magia di un luogo, non si tratta più di un semplice spazio ma di un contenitore di ricordi, come nella ‘Poetica dello Spaziodi Gaston Bachelard dove gli spazi cambiano funzione e acquisiscono appunto poesia. Come anche la torta ‘Forêt Noire’ che sostituisce la Madelaine di Marcel Proust, quel sapore che mi fa viaggiare nel tempo dei ricordi della pasticceria con la vetrina coperta di blocchi di cemento.

Un disco nel quale i testi rappresentano una parte rilevante del lavoro complessivo.

Si, questi brani sono nati come testi, prima di esser musicati, un testo che racconta una storia, tante storie parallele, si riferisce a un evento specifico che mi è rimasto impresso. Oltre all’evento, c’è la descrizione dello spazio, del luogo, spazi che hanno odori particolari, suoni e visioni, tutti i sensi vengono risvegliati. Per quanto riguarda il genocidio armeno, raccontato dai nostri nonni rimasti orfani, l’albero genealogico è sradicato ed annientato, la continuità con il passato è interrotta, ecco perché le tradizioni, la cultura, i sapori diventano così importanti per ricordare e non dimenticare, per ridare vita a ciò che ci è stato tolto per sempre. Quella terra, dove si possono piangere gli antenati ed essere in connessione dall’abisso più profondo fino al cielo libero che si tocca con la mano, ci è stata portata via. L’esperienza della guerra a lungo andare ha effetti collaterali, al momento non ci si accorge ma è impossibile uscirne indenni, magari a livello fisico sì, ma nell’anima, nella mente, non si può sopravvivere alla guerra senza diventare un po’‘folli’. La persecuzione di un popolo ha una memoria collettiva ancora più forte, ogni volta che affronto un momento difficile dentro di me, dico i miei nonni sono sopravvissuti al genocidio ed erano solo piccoli orfani soli nel mondo e ce l’hanno fatta, non c’è niente di difficile in confronto. Le loro storie sono nella nostra memoria, nel nostro sangue, nelle nostre tradizioni, cultura e musica.

Ciò che ovviamente salta subito all'orecchio è l'uso della voce. Hai dei riferimenti di confronto sui quali studiare e con i quali ti eserciti o segui un tuo personale percorso formativo e performativo?

Alleno la mia voce con degli esercizi; ho iniziato ad esplorare e sperimentare con la mia voce dal momento che ho iniziato ad ascoltare Diamanda Galàs che è stata un’ispirazione e un’influenza. Un'altra voce che mi affascina e ispira è quella di Lisa Gerrard dei Dead Can Dance. Anche l’ascolto di Demetrio Stratos mi è stato di ispirazione, ma ho scoperto la profondità della mia voce tramite i canti sacri armeni.

Cosa è cambiato, secondo il tuo sentire dal 2015, anno dell'uscita del tuo primo album (Manifesto Anti War - Rosa Selvaggia)?

In realtà è una continuazione, ho ripreso in mano ciò che avevo lasciato nel 2015, anno in cui i brani di ‘Green Line’ erano già quasi pronti ma mai usciti ufficialmente; si tratta di una naturale continuazione, l’arrangiamento in ‘Manifesto Anti-War’ era molto più minimal e tribale grazie al lavoro di Nikita di Rosa Selvaggia, mentre in ‘Green Line’ con l’aiuto di Paolo Messere i brani sono più elaborati con vari strumenti ancora più presenti e con dei suoni più ‘rock’ se si può dire cosi. In entrambi i lavori gli arrangiamenti hanno soddisfatto perfettamente le mie aspettative sulla musicalità dei brani. Dal 2015 sono andata avanti ad esplorare con la voce e rifinire i miei brani. Ho avuto anche la fortuna di conoscere e collaborare con alcuni grandi musicisti che mi hanno permesso di arricchire la mia personalità e visione artistica.

 

Rita Tekeyan giunge da una famiglia di origini armene, un popolo che ha subito massacri e persecuzioni a opera dell'Impero Ottomano nel 1915-16 con un milione e mezzo di morti. Una tragedia che fa parte del tuo DNA e che hai voluto ricordare anche in Green Line con una traccia. Raccontaci la storia della tua famiglia.   

Il mio nonno materno aveva perso i suoi genitori e fratelli nel Genocidio Armeno ed era rimasto orfano, crescendo in un orfanotrofio in Cipro; la mia nonna materna in realtà è nata dopo ma sua madre era una ragazzina che aveva perso fratelli e genitori. Mio nonno materno poi si è trasferito in Aleppo in Siria dove si sposò con mia nonna; in Aleppo è cresciuta mia madre con i suoi fratelli ma poi tutta la famiglia si è trasferita a Beirut. Il mio nonno paterno è Avedis Tekeyan l’autore del libro ‘La Tragedia degli Armeni di Behesni 1914-1918’, pubblicato a Beirut nel 1956, che raccoglie testimonianze dei sopravvissuti del genocidio armeno; il libro si conclude con delle sue poesie. Mio nonno paterno era di Behesni (Besni in Turchia), era un giovane ragazzo di nemmeno 18 anni, quando è iniziato il Genocidio, riuscì a scappare ‘a piedi nudi’ come dice nella sua poesia ‘Yes Kou Aperet’ alla quale ho dato voce e musica e che fa parte del mio ‘Manifesto Anti-War’, riuscì a scappare verso i confini della Siria che non era tanto lontana. Suo padre che era un artigiano del bronzo preferì togliersi la vita bevendo un veleno piuttosto che farsi catturare e torturare dai turchi, mentre la madre di mio nonno con il fratellino di soli 4 anni e una zia sono stati deportati dentro le carovane verso Aleppo insieme a tanti armeni e sono sopravvissuti; in Aleppo il mio nonno Avedis ha potuto riunirsi a sua madre e fratello, poi si stabili in Haifa dove lavorava come fotografo, quindi si trasferì a Beirut con la sua famiglia. Invece della mia nonna paterna non so niente della sua storia, è mancata anni prima della mia nascita. Il nostro albero genealogico purtroppo è stato spezzato per sempre, sarà impossibile penso ricostruirlo andando indietro nel tempo, tutte le tracce sono state cancellate. Nell’album ‘Green Line’ ho dedicato un brano al Genocidio Armeno, il brano si intitola ‘Y’ sarebbe ‘Why?’ la mia domanda del perché tutta questa crudeltà? Il brano è ispirato a scene dal libro di mio nonno, è la parte che mi è più rimasta impressa per il dolore e la rabbia che contiene a vedere il grande male e tanta crudeltà nella razza umana. C’è anche il video a cura del regista Enrico Fappani; all’inizio non avevo idea di quello che volevo vedere nel video, era molto difficile esprimere il concetto senza avvalerci delle immagini crude del Genocidio Armeno, quelle di Armin Wegner, ma devo essere sincera il concetto è stato molto ben espresso grazie al regista che ha colto le mie idee e grazie alla nostra ispirazione e tributo al ‘Colore del Melograno’, film del grande regista Sergey Paradzanov.

Qual'è per te la valenza della musica, a cosa può servire quando si devono affrontare tematiche così terribili.

La valenza della musica serve per esprimere, nel mio caso, l’incapacità di cambiare le cose, la rabbia di assistere - come uno spettatore che sta guardando un film – alla crudeltà dell’uomo, alla violenza, alle guerre e genocidi. La storia continua a ripetersi purtroppo … La musica può portare conforto, può attenuare il dolore, forse dare speranza che non tutto è perduto. La musica serve a raccontare la storia, testimoniare, documentare, a dire che non abbiamo dimenticato, a lasciare traccia, a gridare no alla guerra. La musica è consolazione, ribellione, liberazione e salvezza, è un’arma molto potente contro l’ignoranza e la tirannia, contro il negazionismo.

Una curiosità, hai mai pensato di produrre un album in lingua armena, con suoni che si rifanno alla tradizione del tuo popolo?

Ho in mente tale progetto che effettivamente conterrebbe alcuni brani tradizionali in lingua armena che a volte suono dal vivo. Ho avuto l’onore di condividere il palco con due grandi artisti Osvaldo Arioldi Schwartz delle Officine Schwartz e Michele Gazich nell’ambito di un evento dedicato al Giorno della Memoria dove avevo portato anche dei brani tradizionali armeni, ed è stata un’esperienza indimenticabile. Con Michele Gazich, inoltre, ho collaborato come voce femminile nel brano ‘Maltamé’ dal suo album ‘Temuto Come Grido Atteso Come Canto’ dedicato agli ebrei di Venezia del Manicomio di San Servolo. Ho anche avuto l’onore di collaborare con altri grandi musicisti e maestri della musica Neo Psichedelica Italiana i No Strange (Alberto Ezzu e Salvatore D’Ursus) nel loro album ‘Mutter Der Erde’ con il brano ‘Kilikia’ del grande musicologo Armeno Komitas che sopravvisse al Genocidio preservando una grande parte della musica tradizionale armena.

Ora che la vita artistica sembra riprenda a scorrere sui palchi e davanti un pubblico in carne ed ossa, hai qualche data definita?

Non ho ancora date definite, ma su quello ci stiamo lavorando. Ho fatto recentemente un evento dal vivo ‘War Flowers II’ con la talentuosa pittrice e amica armena Liana Ghuk Asyan in un evento dedicato al Genocidio Armeno con musica, poesia, canti e live performance al Castello Sforzesco di Vigevano nell’ambito del Festival della poesia in occasione dei 700 anni della morte di Dante, ed è stato un’ emozione incredibile ritornare sul palco dopo tanto tempo. Adesso con il mio nuovo album ‘Green Line’ il mio obbiettivo è quello di portarlo dal vivo il prima possibile.

Vorrei terminare questa conversazione con quella che tu ritieni essere la frase più significativa scritta per i tuoi testi.

La frase più significativa scritta per i miei testi è la frase con la quale concludo il mio EP ‘Manifesto Anti-War’ purtroppo è una frase che non lascia tanta speranza; “No Way Out From War …”.

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In memoria del mio adorato padre Hovsep Tekeyan che mi ha appena lasciato

Rita Tekeyan

 
 

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