Partigiani di un rock e di un'Italia musicale eviscerati e resi innocui

di Mirco Salvadori

3 Settembre 2021

Sono un semplice cronista dell’insoddisfazione artistica. Dentro di me si agita una sorta di dibbuk un essere che, nel corso dei decenni trascorsi a contatto con il vinile, ho iniziato a comprendere e seguire. Solitamente lui mi intima di isolarmi, non partecipare, non commentare e di starmene ben lontano da quel mondo, il piccolo universo non solo musicale italiano di alt(r)o gradimento, che non ha più nulla o quasi di indipendente, anche se questa pseudo indipendenza la sventola ogni giorno ai quattro venti. A volte questa lontananza mi risulta impossibile da rispettare e trasgredisco alle regole.

Personalmente vivo all'interno di una Laguna fuori dal mondo, non appartengo a nessuna corrente, scuola, classe, combriccola più o meno famosa. Da sempre insisto nella mia autentica e probabilmente perdente convinzione legata al pensiero diverso, in contrasto con l'uniformità che via via si sta impossessando della maggioranza delle espressioni artistiche e musicali un tempo definite alternative... un tempo, molto tempo addietro.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto nell'interessante conversazione sulle pagine del Domani tra Pierpaolo Capovilla e Massimo Zamboni, uno scambio di pareri sull'ultimo libro del musicista e scrittore di Reggio Emilia, La Trionferà edito da Einaudi. Una conversazione che ha preso la strada del confronto sullo stato dell'arte contro (uso il termine per brevità di definizione), ora, qui e adesso in Italia. Ho trovato le loro opinioni tutto sommato concordi ma la lettura del pezzo mi ha lasciato pensieroso. Non sono un musicista, non possiedo certo il possente curriculum vitae dei due artisti (sempre abbia un senso usare sempre questo termine) in questione. Indubbiamente stimo Pierpaolo che porta con sè il piccolo ma immenso valore aggiunto dato dall'incontrarlo di tanto in tanto per strada, una coincidenza che ci permette di scambiare qualche battuta tra una pacca sulla spalla e l'altra, cosa che dona sempre molto piacere. Zamboni lo conosco solo come personaggio legato al mio tardo idealismo di giá anziano amante del movimento molto post e, per il mio vissuto, zero punk. Di lui mi manca totalmente la conoscenza dell'aspetto umano, per me essenziale.

Seguo questa conversazione, che ora scopro leggibile solo per gli abbonati al quotidiano in formato digitale, una cosa che fatico a comprendere, e la sensazione che ricevo, diversamente forse dall’intento dei due autori è quella di un infinito e un po' stancante dejá vu.

Più mi inoltro nella lettura, più mi immergo in una serie di frasi e concetti espressi mille volte dal ‘77 (68?) in poi, dichiarazioni di intenti ormai mangiate e digerite da quell'organismo odiato - anche e soprattutto dai nostri - che è il sistema capitalista (definizione a parer mio d'antàn di cui mi scuso, al pari dell'uso del termine: "alternativa" sù scritto) con i suoi organi di (dis)informazione che ben sanno come collocare, mantenendoli in vista, soggetti un tempo definiti politicamente pericolosi.

Il punto è che la pericolosità è ormai scomparsa. Per quanto tutto attorno a un disco o a un libro  si cerchi di costruire un reticolo di narrazioni giuste, imparziali o di accusa. Frasi e suoni che riportano a galla il profumo della ragione, della denuncia e della memoria dimenticata, le badanti della grossa distribuzione volutamente accantonano il tutto. Sono operatori del settore nati proprio per questo. Instancabili colf che conducono mano nella mano il prodotto finale all'interno di un mercato pensato ed organizzato per vendere qualsiasi cosa, senza soffermarsi sul contenuto e questo perché, tornando all'inizio di quanto scritto, non esiste più quel mercato indipendente di cui si sono perse le tracce da decenni e di cui sopravvivono solo sparute e battagliere realtà.

Continuo a leggere e la sensazione che si rafforza è quella di un dialogo tra sopravvissuti che insistono nel sentirsi contro ma che non sortiscono più l’effetto dirompente che un tempo li avrebbe trasformati in figure “proletariamente (altro termine desueto da aggiungere) e artisticamente eroiche”. Forse è un mio sentire intimo ma quando guardo questi fenomeni attraverso lenti iper critiche, al pari di una persona che ancora riesce a distinguere la realtà, vedo tante scialuppe alla deriva. Alcune sono dipinte di fresco e continuano a navigare in ogni dove, spinte da venti favorevoli. Altre se ne stanno immobili, le vele squarciate per le troppe tempeste tuttavia superate mentre le loro sentine iniziano a imbarcare acqua.

Comunque ciò che vedo sono scialuppe di salvataggio.

Si parla di isolamento dell’artista quando quell’artista pubblica bene o male su “major”, quando - ovviamente per oggettiva capacità e bravura - l’artista in questione fa parte a sua insaputa forse, di una diffusa e ben costruita realtà culturale che prevede anche i “dissidenti”, proprio come contraltare al mainstream imperante. Sembra il gatto che si mangia la coda, in realtà è un mondo dal quale ci si dovrebbe allontanare creando una valida alternativa ma questo, me ne rendo perfettamente conto, ormai è pura utopia.

Ben lungi dall’essere una critica la mia è solo una semplice e concreta osservazione degli accadimenti.

Essere realmente isolati, in questa nazione di cantanti, poeti e calciatori, è ben altra cosa. Pubblicare pareri artistici contrari e non catalogati o catalogabili, faticare per trovare gli spazi dove farlo, non venire quasi mai valutati perché troppo indipendenti e solitari e utopisti, questo è il vero isolamento di chi ha deciso di vivere storto e comunque sorridente. Anche perché la rabbia ha sempre meno spazio vitale, mentre l'ironia lo crea come le piante creano ossigeno.

Sempre e comunque con stima per i diversamente partigiani PP e Zamboni.

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https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/lotta-di-classe-e-beatitudine-dialogo-fra-partigiani-del-rock

 
 

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