Di rimbalzi e altre piccole (grandi) cose: cosa ci dicono le musiche del 2021?

I venti migliori album e un podio (quasi) ragionato

28 Dicembre 2021

Se dovessimo fare una classifica delle parole dell’anno, non avremmo dubbi nel consegnare la corona del termine più usato (e abusato) a “resilienza”. Un termine che nel corso degli anni è stato completamente stravolto dal suo significato etimologico e che sta oggi drogando il lessico comune per indicare quanto il sistema economico attuale sia talmente perfetto e meraviglioso da trasformare il disastro che stiamo vedendo da quasi due anni addirittura in un’opportunità per il futuro. Ma questo articolo parla di musica e si esime dal commentare le scelleratezze pronunciate da politici e consorterie di turno in questo 2021, che hanno fatto del termine “resilienza” il tappeto dove nascondere il deserto fatto ai loro piedi (vedi alla voce PNRR, per l’appunto Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

Ma cosa c’entra la resilienza con la musica? Per rispondere proviamo a cimentarci con l’origine latina dell’accezione, che deriva da resilĭens -ĕntis, participio presente di resilīre, ‘rimbalzare’. Nell’Italia del XVIII secolo il termine viene usato con una certa frequenza sia in ambito scientifico che filosofico e si riferisce alla capacità di un corpo di rimbalzare e – in generale – di essere elastico. Grazie al grande pensatore napoletano Giambattista Vico, che tanta influenza ha avuto nella scena culturale italiana settecentesca, il concetto di resilienza viene applicato anche alla Storia, in particolare all’idea che i processi storici non abbiano mai una linearità, ma siano sempre il frutto di continui “rimbalzi”, di un incessante andare avanti e indietro attraverso il flusso scomposto dei corsi e ricorsi.

La musica degli ultimi decenni è stata un continuo rimbalzare, un rincorrersi e rimescolarsi di sonorità vecchie e nuove. A tal punto che gli stessi concetti di “vecchio” e “nuovo” sono diventati sfumati, come sfumate sono le linee di confine tra generi musicali o anche tra le categorie di “commerciale” e “alternativo”, quantomeno per come sono state impacchettate dalla critica grossomodo fino alla fine del secolo scorso. Gli ultimi due anni, quelli nei quali la crisi pandemica ha sollecitato le corde di ogni angolo più recondito di vita sociale in questo pianeta, questo “rimbalzo” è diventato quasi frenetico e l’elasticità sonora una necessità storica. Complice di questo è invero la ridefinizione dell’intera filiera musicale, con la quasi scomparsa dei live, la crisi lavorativa che ha attraversato il settore e i musicisti che hanno avuto più tempo – o sono stati costretti ad averlo – per curare le produzioni.

In questo paradosso hanno visto la luce alcuni autentici capolavori, altre bellissime sorprese regalateci da band esordienti o da altre considerate ormai da anni al capolinea, ma anche altrettanti “bidoni”, dischi più chiacchierati che suonati che hanno fatto sensazione più per i titoloni dei magazine che per il loro reale impatto nell’universo musicale. Siccome questo articolo vuole parlare di cose belle, mi concentrerò sulle prime due categorie scegliendo venti dischi tra i tanti che mi hanno accompagnato in questo anno tormentato e subdolo.

Il gradino più alto del podio spetta ai Low con Hey What, prodotto da Sub Pop, che è anche un oscar alla carriera per una band che in 22 uscite dal 1994 non ha mai avuto un calo di rendimento. Hey What è un disco che si discosta dal solito tenore slow core di Alan Sparhawk e soci e – come già accaduto con il precedente Double Negative del 2018 – esplora territori psichedelici. E così le 10 tracce del disco scorrono tra cupe distorsioni ed escursioni nel cosmo sonoro che richiamano talvolta la neopsichedelia inglese degli ’80 (Hey e il capolavoro All Night), altre volte il tardo krautrock (The Price You Pay). Ma l’originalità del trio di Minnesota consiste nell’avere sempre il pieno controllo della forma canzone, senza mai scivolare in barocchismi o episodi poco intellegibili per l’ascoltatore.

Al secondo posto un disco italiano, Ira di Iosonouncane, uscito per i tipi di Trovarobato. Se qualcuno si aspettava il prosequio di La macarena su Roma e Die si è trovato spiazzato fin dalle prime note. Ira è uno spartiacque, non solo per la carriera del cantautore sardo, ma probabilmente per l’intera musica italiana che forse era dai tempi d’oro del prog che non si trovava di fronte a un album così complesso e mastodontico. La scrittura e la composizione di Incani sono maniacali e i riferimenti musicali spaziano dalla metafisica del primoBattiato (e chissà che non ci sia un omaggio inconscio al grande Franco, scomparso soli 4 giorni dopo l’uscita del disco) che incontra i Current 93 (Hajar e Ashes), al rock di matrice no wave di Prison (forse il pezzo più bello del disco, se mai abbia senso trovarne uno), fino ad arrivare a ballate strumentali di impronta quasi morriconiana (Soldiers). Il tutto tenuto insieme da una costante tensione onirica degna del miglior David Lynch. Capolavoro!

Completa il podio con Wait For Me (Edition Records) il duo londinese Snowpoet, composto dalla cantante di origine irlandese Lauren Kinsella e il polistrumentista Chris Hyson. Entrambi di formazione jazz, i due hanno ampliato il loro raggio d’azione sperimentando sonorità fusion, pop e black. Dopo due dischi belli, ma passati un po’ in sordina, con Wait For Me raggiungono una maturazione artistica notevole, grazie alla quale ci consegnano una vera e propria perla di metissage sonoro che deve tanto a Björk e ai Portishead (la sublime Sky Thinking) quanto all’urban r’n’b di FKA Twigs (Facetime), ma riesce a incantare anche con raffinate incursioni di jazz-poetry (Floating Practice).

Di seguito, in rigoroso ordine alfabetico, gli altri dischi che completano la lista dei migliori album di questo 2021. Iniziamo con l’elegantissimo A common turn della cantautrice londinese Anna B Savage, che ci regala perle di una bellezza assoluta come Dead Pursuits (una delle più belle canzoni dell’anno) e BedStuy.

Altissimi livelli anche per i Beautify Junkyards, che con Cosmorama raggiungono l’apice finora di una carriera che ci potrà ancora regalare tanto, soprattutto se continueranno a muoversi con così tanta maestria tra le sonorità prog e canterburiane dei ’70 e le tendenze più avant del folk contemporaneo. Mirabile l’ultimo lavoro dei canadesi Besnard Lakes, intitolato The Besnard Lakes Are The Last Of The Great Thunderstorm Warnings: quattro capitoli aventi come tema il ciclo della vita e della morte, che si concludono con la lunga suite Last Of the Great Thunderstorm Warnings, che è quasi un manuale di neo-psichedelia dei giorni nostri.

Debutto col botto per i londinesi Black Country New Road, che con For the first time ci riportano al post-hardcore di fine anni ’80 e soprattutto al post-rock di matrice slintiana. Prima del debutto con Ninja Tune per anni hanno condiviso il palco con i Black Midi, altra giovanissima band londinese che con Cavalcade arriva al secondo lavoro (questa volta la scuderia è quella della Rough Trade): tra prog, jazz-rock, now wave e influenze dirette di mostri sacri della musica come Pere Ubu e King Crimson, i Black Midi – che si definiscono gruppo musicale no-gender – si apprestano a diventare un punto di riferimento del rock sperimentale mondiale.

Album d’esordio anche per i Fax Gang, progetto formato da quattro producer (Blacklight, GLACIERbaby, maknaeslayer, NAIOKI) e un vocalist (PK Shellboy), tra le punte di diamante della scena HexD statunitense, che mischia trap ed elettronica sperimentaleAethernet ha suoni molto contemporanei, che spesso sconfinano in un piacevole glitch pop (la meravigliosa Fallen), altre volte in affreschi più sperimentali che richiamano addirittura Animal Collective e Volcano The Bear.

Tra i migliori dischi jazz degli ultimi anni, Promises di Floating Points, Pharoah Sanders & The London Symphony Orchestra (Luaka Bop) è stato fino agli ultimi istanti sul punto di varcare la soglia del podio. Album d’altri tempi, che deve moltissimo al talento eccezionale del sassofonista Pharoah Sanders, ma anche alle innovazioni elettroniche del producer britannico Floating Points: un disco da ascoltare tutto d’un fiato, possibilmente senza rumori di fondo che disturbino la complessità sonora di questa vera e propria scultura sonora.

A un lustro di distanza dall’ottimo Requiem, tornano i Goat con Headsoup, disco in cui il marchio di fabbrica etno-psych della band svedese rimane inalterato, anche se le tracce hanno un tessuto sonoro teso e ritmato che scomoda nomi del primo hard-rock come Led Zeppelin e Black Sabbath. Sempre sugli scudi i Godspeed You Black Emperor, che con G_d’s pee at state's end, prodotto al solito da Constellation, inanellano il settimo capolavoro in una carriera che si avvicina ai 40 anni e che ha fatto la storia del post-rock. Eterni!

Tra i dischi dell’anno anche The Wide, Wide River del cantautore scozzese James Yorkston, giunto probabilmente alla prova più completa di una carriera che da diversi anni lo pone ai vertici dell’alt-folk britannico. Sull’altra sponda dell’Atlantico, e precisamente a New York, vive invece L’Rain, al secolo Taja Cheek, che con Fatigue si conferma cantante e polistrumentista di grande spessore. Tra echeggi di post-rock britannico che si iscrive alla voce Stereolab e Pramchill-wave e soul, che omaggiano le origini afro di cui Taja è molto orgogliosa, Fatigue è un album orecchiabile quanto complesso, che ha in Two Face uno dei momenti di massimo splendore.

Sempre di stanza a New York, ma con molti più anni d’esperienza, sono i Liars, band che agli albori del nuovo secolo ha dato un nuovo impulso alla scena noise-no wave statunitense. Con The Apple Drop, prodotto dalla Mute come tutti gli altri lavori, Angus Andrew & Co. tornano ai livelli di Sisterworld e dei precedenti, con una vena sperimentale meno marcata, ma con canzoni forse maggiormente coinvolgenti, come dimostra la splendida Big Appetite, che si muove su versanti dark-psych.

Secondo disco italiano presente in questa classifica è Ghettolimpo dell’italo-egiziano Mahmood, senza dubbio il più talentuoso dei soggetti che stanno emergendo dalla melassa rap-trap-nu soul italiana. La sapiente mano di Dardust e le doti vocali uniche di Alessandro Mahmoud danno a Ghettolimpo un’aura realmente internazionale, grazie a brani che passano senza troppi artifici dall’elettropop melodico all’etno-soul.

Sempre rimanendo in ambito black, sebbene in un contesto totalmente diverso, troviamo ancora una volta nella best of la poeta e attivista di Philadelphia Camae Ayewa, in arte Moore Mother. Accantonato per un attimo il free-jazz di Circuit City, Black Encyclopedia Of The Air ha un tono molto più politico e racchiude sofferenze e resistenze della comunità afroamericana, che proprio nello spoken word sta trovando un’importante forma d’espressione.

Torna agli altissimi livelli di One second of love del 2021 la cantautrice californiana Nite Jewel, che con No Sun si muove tra raffinatissime trame elettroniche, partiture jazz e atmosfere hypnagogic pop.

Tra gli artisti emergenti in classifica troviamo Slowthai, che con Tyron giunge al secondo album e si conferma tra le cose più interessanti della scena post-dubstep e grime.

Conclutiamo la carrellata con Ultrapop dei The Armed, che mettono in un frullatore power-electronics, post-hardcore e trip pop dando vita a 12 pezzi audaci e magnifici allo stesso tempo.

 
 
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