L'oblio che il bosco spinge fin qui

di Mirco Salvadori

28 Settembre 2022

Questa immagine l'ho rapita ieri lì dove da anni giace.

Sono penetrato in un luogo abbandonato che insiste a rimanere in posizione eretta, anche se molti troppi sono i suoi squarci e fori e crepe. Tanti quanti i ricordi che ancora albergano tra i confini delle sue fondamenta.

Sul muro della cucina il calendario del panificio, alimentari, mercerie, vini e liquori, cruscami e gas Aldo Saviane, come un orologio è fermo al mese di Luglio del 1979. Una valigia di cartone, al pari di un vecchio ed esausto animale morente, la bocca spalancata, vomita consunti e pesanti indumenti rigidi di polvere e zuppa solitudine sul pavimento di travi in legno, stagionato dai cascami del tempo.

Ovunque segni di vita andata, finita, fuggita chissà dove, di certo lontano da quel silenzio che filtra e spinge e può soffocare, istigato dall'isolamento e dallo sguardo severo dei monti nei quali regna sovrano.

Mi guardo attorno e noto l'antico scolapiatti di legno ancora in attesa dell'impossibile fredda e pulita ceramica che era uso accogliere. Ora è disteso su pratiche di vita cessate, accumulate fino a riempire il lavandino tutto.

Osservo e trovo una comunanza di spazi che ci unisce, sembra quasi lui mi sussurri: guardami, scruta i miei vuoti.

All'estrema destra lo vedo, la sua vuota mancanza mi coglie di sorpresa in questa stanza devastata dal tornado del tempo che tutto annichilisce e tutto alla rinfusa riempie.


Con lo sguardo seguo le sue linee rette e trovo un secondo spazio nel quale giace una scatola o il suo coperchio. Forse un raccoglitore di fortuna per oggetti che potevano rompersi o perdersi da qualche parte, sul pavimento di ogni cosa ingombro.

Il terzo e quarto scomparto sono gremiti, straripanti, per metà nascosti in preda della confusione che, come una cascata è scivolata nel lavandino rotolando nella sua stessa polvere, accumulata come si accumulano le foglie morte in una piscina che non chiede più la grazia della manutenzione.

Quindi? Hai inteso? Mi sussurra nuovamente l'antico manufatto di legno. Si, ti ho capito, rispondo nell'oblio che il bosco spinge fin dentro questo casale in abbandono.

Ciò che vedo sono gli scomparti della mia vita: il primo ormai andato, inconsapevolmente vissuto. Il secondo ancora colmo di ricordi trattenuti a stento dentro una scatola che si va disfacendo. Il terzo e il quarto contengono la realtà del momento, ora e qui mentre li guardo e mi scruto. Qualcosa si riesce a intravvedere, il resto è coperto dall'insana incapacità di riuscire a guardare oltre la tossica velocità del momento iterato nel minimalismo della sua composizione.

Indosserò i guanti che mia madre usava di tanto in tanto per lavare i piatti. Erano di un giallo intenso e scivolavano sulle mie ancora minute mani, isolandomi dal calore o dal freddo del getto d'acqua che copioso li colpiva. Ti sentivi invincibile quando li usavi, eri un eroe immortale benedetto dalla divertita espressione di una madre che ti guardava sorridendo. Neanche lontanamente avresti potuto immaginare il diluvio di amore che conteneva quello sguardo.

Li indosserò cercando di mettere ordine, svuotando e pulendo quel lavandino un tempo adibito alla detersione. Tornerò a far scorrere l'acqua e chiuderò quella crepa sul suo fianco ferito. Stenderò un canovaccio di lino bianco sugli spazi liberati dello scolapiatti riverniciato di fresco.

Solo allora lascerò entrare il silenzio. Non lo temerò, lascerò che il bosco lo spinga fin qui, dentro l'oblio che abita queste stanze.

 
 

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