La mitica ultima data del Poplar Festival 2023

Il diario di bordo di una di quelle che avrebbero potuto essere le storiche date dei festival anni ’90, con tanto di foto analogiche lo-fi

17 Ottobre 2023

Diciassette settembre duemila ventitré tarda mattinata, mi preparo a quella che si preannuncia una giornata memorabile, o almeno per chiunque italiano che abbia a cuore il panorama alternative rock. Infatti tra poche ore andrà in scena l’ultima data del Poplar Festival 2023, festival musicale e culturale situato a Trento ormai giunto alla sua settima edizione vuole e che quest’anno vuole chiudere le danze con una line-up da sogno. Avremo modo di vedere in un solo evento, fra gli altri, Squid, Shame e Verdena!

L’entusiasmo è alle stelle e nel mentre tiro fuori il mio arsenale da concerto: cappello da pescatore, occhialini Decathlon, maglia degli Shame, jeans corti e scarpe da ginnastica (sì, io do priorità alla comodità, anche se con un pelo di invidia verso i coraggiosi che optano per dei vistosi “leather boots”). Questa volta però l’arsenale si aggiorna con una fotocamera analogica usa e getta e una tote bag contenente l’acclamato secondo disco degli Shame, Drunk Tank Pink, rigorosamente comprato poche mesi prima a Milano per la  prima data da headliner del quintetto londinese e nella speranza di farlo firmare.

Ovviamente in ritardo scendo le scale di casa per avviarmi verso la fermata del tram, i miei fedeli compagni di concerto sono già al capolinea ad aspettarmi ma questa attesa non li sorprende, mi conoscono abbastanza bene da sapere che sono un inguaribile ritardatario cronico.

Appena arrivato a destinazione Martina, la storica compagna di concerti, mi trascina di tutta fretta in macchina di Luisa, la nostra mitica “scarrozzatrice” conosciuta in veste di autista bla bla car per un concerto niente di meno che degli IDLES, e partiamo immediatamente. Non c’è tempo per i saluti e le formalità, un festival ci sta aspettando ed è meglio non farsi attendere.

Ad accogliermi sui sedili posteriori ritrovo l'iconico arbre magique di Iggy Pop, probabilmente preso in qualche negozio musicale dei sobborghi parigini, e quello che si rivela il nuovo arruolato della compagnia, Pietro, amico di Martina. Intanto davanti la stessa Martina e Luisa decidono di instaurare una dittatura musicale femminile scegliendo loro soltanto la playlist di viaggio. Male di poco perché la selezione porterà ad un lungo ripasso degli Arab Strap e del compianto Mark Lanegan, perfetti per ammirare il paesaggio che piano piano si trasforma davanti a noi, passando dalla desolata pianura veneta alle magnifiche montagne trentine.

Intanto avvio una lunga conversazione col nuovo compagno di viaggio, che si rivela essere uno studente di cinema, mia grande passione dopo la musica, e un appassionato di stoner rock, mio grande amore assieme al post-punk! Non potevo chiedere di meglio. Ne approfitto per fare un colpo di stato e prendere in mano la selezione musicale mettendo del buon vecchio stoner, che comunque viene apprezzato senza troppe proteste. Fra una canzone dei 1000mods e una dei Colour Haze, accompagnate in sottofondo da considerazioni sul bianco e nero di The Lighthouse, è già tempo di cercare parcheggio a Trento.

Sceso di macchina si presenta improvvisamente un dubbio fulminante. Davvero voglio portarmi dietro un vinile rinunciando alla sacrosanta possibilità di pogare? Oppure preferisco pensare che non valga la pena perseguire questa lontana possibilità di riuscire a farselo firmare? Mi consulto con gli altri ma i pareri sono contrastanti. Alla fine decido di seguire le mie ossessioni compulsive, il disco andava riportato a casa scarabocchiato a tutti i costi.

Con queste aspettative ci avviamo verso la venue del concerto, una venue tanto insolita quanto bella. Infatti il Poplar Festival si tiene nella splendida scenografia del Doss di Trento, uno dei parchi naturali più belli del Trentino e collocato su una collina di fianco al fiume Adige. Il parco è raggiungibile esclusivamente a piedi, con una camminata in salita non semplicissima me che ripaga tutte le fatiche grazie ad un panorama mozzafiato sulla città di Trento. Fatti gli ultimi controlli di sicurezza, dove ci fanno gettare con nostro scontento qualsiasi bottiglia d’acqua anche senza tappo, ci addentriamo tra le mura del Doss, dove si erge vistosa la gigantesca scritta Poplar. Dentro ammiriamo subito il main stage, un grande palco coperto che a primo occhio ricorda una piccola versione di quello di uno storico festival inglese, il Glastonbury Festival, e questo non fa che incrementare in me le già alte aspettative sulla serata. Nel mentre gli Humus hanno già cominciato a suonare, che insieme ai successivi Milanosport ed infine Daniela Pes hanno il compito di aprire le danze, tutti promettenti artisti dell’underground italiano tra l’altro. Noi intanto facciamo il giro degli stand, prendendo la rituale birra con bicchiere personalizzato e soffermandoci al merchandising. C’è molto merch inerente al festival stesso, a sottolineare una marcata identità del festival stesso con divertenti soluzioni come la scritta Poplar in versione “Durex” oppure “forze di polizia”, ma con mio scontento non c'è alcun articolo degli Shame. Scontento condiviso, visto che poco dopo un ragazzo mi ferma chiedendomi dove avessi preso la mia maglia del quintetto post-punk. Io gli rispondo di averla presa sempre ad un loro concerto ma a Milano, rassicurandolo però che avrebbe potuto comprarne una identica online. Lui mi ringrazia per la risposta, ma aggiunge anche che così non sarebbe lo stesso, ed io non posso fare altro che annuire. Proseguiamo il giro ed arriviamo allo stand dei glitter. Qua con un’offerta libera dei simpatici addetti del festival si sarebbero impegnati a decorare il viso di chiunque con brillantini e glitter. Io non mi tiro certo indietro e ne approfitto per fare qualche domanda al mio truccatore: «C’è qualche possibilità di riuscire a farsi firmare un vinile dagli Shame?». Un addetto allo staff si avvicina e mi risponde che ha conosciuto il gruppo poco prima e che sono molto alla mano. Mi consiglia quindi di avvicinarmi alla sinistra del palco a fine concerto perché ci sono buone probabilità di riuscire nel mio intento. Mi segno tutto e finalmente ho un aggancio per portare a termine la mia missione.

Finiti i preparativi io e i miei compagni ci avviciniamo al main stage perché gli Squid sono in procinto di cominciare a suonare. Una quantità smisurata di strumenti riempiono il palco: violoncelli elettrici, synth, svariate chitarre, trombe, bassi, ma soprattutto una batteria rialzata al centro. Infatti il leader della del quintetto di Bristol, Ollie Judge, è sia batterista che lead vocalist del gruppo, una scelta decisamente insolita considerando anche la vena progressive della band, che porta lo stesso leader a cantare su tempi dispari! Ecco che i ragazzi entrano in scena, e dopo una lunga intro partono con Swing (In a Dream), pezzo di apertura della loro ultima fatica, l’album O Monolith uscito ad inizio estate. L’atmosfera qua si fa rarefatta e tesa allo stesso tempo grazie ai continui cambi di tempo del pezzo sopra citato, un pezzo che la band ha dichiarato essere ispirato dal quadro The Swing del pittore francese rococò Jean-Honoré Fragonard. Lo stesso mood si protrae col secondo brano in scaletta, Undergrowth, dove il verso «You'll never know I'm even there» ripetuto all’infinito diventa quasi un mantra. Intanto il sole continua a calare portando con sé la notte, e in questa scena degna del miglior episodio di The Twilight Zone[1] il mood trascendentale viene spezzato da G.S.K., brano di punta del primo album Bright Green Field e contraddistinto da un incalzante ritmo funky mescolato a lisergici suoni di tromba. Dopo una breve selezione di brani dell’album di debutto, inframezzati da deliri progressive elettronici, gli Squid decidono di tornare all’ultimo album per chiudere l’esibizione, proponendo The Blades, un pezzo insolitamente «really soft and tender» per la band, come lo descrive il frontman Ollie Judge (NME), dal testo invece piuttosto impegnato e ispirato dalla brutalità della polizia durante le proteste per il “Kill the Bill”[2]a Bristol.

Finita l’esibizione la birra di poca prima inizia a farsi sentire ed è il tempo di volare ai bagni, è imperativo fare in fretta per saltare l’imminente cada ai Sebach, anche solo il rischio di perdersi l’inizio esibizione dei miei cari Shame non è calcolabile. Come uno stambecco delle vicine Alpi mi districo saltellando fra la folla e riesco soddisfatto nel mio intento. Quindi mi riavvicino al palco, questa volta al lato opposto rispetto a prima, e attendo impaziente l’arrivo dei miei paladini londinesi. Ecco che l’attesa non si fa lunga perché vedo avvicinarsi al microfono Charlie Steen, frontman nonché cantante del gruppo, che ci saluta con un bel «Ciao Ciao» e subito si parte. Iniziamo con Finger of Steel, brano d’apertura dell’ultimo album Food for Worms, un inno alla libertà energico che mi fa urlare dal primo all’ultimo coro, come se la canzone non potesse andare avanti senza il mio contributo. Ecco che sulle note di Alibis Charlie inizia ad indicare dei cerchi con le mani, chiaro segno che non vuole vederci tranquilli. Alcuni veterani capiscono subito ed iniziano a formare dei moshpit[3], dove già alcuni coraggiosi iniziano ad infilarsi. Parte quindi il pogo ed io devo mordermi la lingua, unirmi alla mischia si tradurrebbe automaticamente nel tornare a casa con frantumi di vinile. Ecco che anche lo stesso Charlie non sembra per niente intenzionato a stare tranquillo e prima dell’inizio di Concrete monta sulle transenne, sorreggendosi col supporto dei fortunati presenti sottopalco. Tempo di urlare tutti insieme «No more, no more, no more questions» che il frontman si è già lanciato sulla folla, avviando un infinito stage diving. Risalito sul palco Charlie non ha più addosso la sua camicia, ma questo non sembra essere un problema. Infatti il gruppo continua imperterrito nella sua scoppiettante esibizione fino ad arrivare alla mia canzone preferita dell’ultimo album, Adderall (End of the Line), una canzone sull’osservazione di persone che fanno affidamento sui farmaci da prescrizione, come lo stesso famoso psicofarmaco Adderall, e su come si possa stare vicini a questi amici nonostante le difficoltà. Ecco che il bassista Josh Finerty inizia a correre freneticamente da un lato all’altro del palco, quasi come un bimbo sotto l’effetto di taurina, mentre inizia ad intonare insieme al resto della band Born In Luton, forse la loro canzone più bella proveniente direttamente dall’acclamato secondo disco Drunk Tank Pink, disco che tengo gelosamente stretto sottobraccio. 

Intanto il quintetto di South London sprigiona energie nascoste al pubblico presente. Charlie Steen in particolare, attraverso la sua forte presenza sul palco, sembra aver calato un “incantesimo misterioso” sulla folla: ogni suo sguardo dritto negli occhi sembra condannare l’ennesima persona ad unirsi al continuo flusso di poghi, ogni qual volta che scende dal palco per immischiarsi con noi un compagno è offerto in tributo e costretto a fare superman sulle nostre braccia, in un’interminabile stage diving. Non contenti dei loro risultati, gli Shame decidono di lanciare la magia finale, la pozione più potente: è il turno del greatest hit, il pezzo più famoso, ovvero One Rizla. Appena ne riconosco le prime note cerco immediatamente Martina, che intanto si era sacrificata più e più volte alla marea di poghi. La raggiungo giusto in tempo per il ritornello e, all‘unisono col pubblico e la band, urliamo a squarciagola «Well I'm not much to look at, And I ain't much to hear, But if you think I love you, You've got the wrong idea». Dopo aver sganciato la bomba atomica Charlie annuncia l’arrivo dell’ultima canzone, Snow Day, e in me sale un grande conflitto. Questa si tratta dell’ultima possibilità per pogare, ed inoltre con la canzone sulla quale nel concerto di Milano di qualche mese prima avevo avuto l’incredibile possibilità di fare stage diving per la prima volta in vita mia. La tentazione è irresistibile, ma come fare col vinile? Torno da Luisa, che intanto si era messa in primissima fila dietro le transenne e le chiedo il difficile piacere di accudire il disco il tempo di una canzone. Lei mi guarda piuttosto intimidita dalla responsabilità del compito, ma dopo pochi secondi prende in mano la tote bag ponendola subito al di là delle transenne e dicendomi «ci penso io». Liberatomi del fardello mi sento leggero come mai in vita mia e finalmente anche io pago il mio contributo unendomi al flusso di spintoni e sudore. Nel vortice ritrovo sia Pietro che Martina e, in un momento di respiro, mi fermo a godere indirettamente della fresca brezza creata dall’enorme ventaglio arcobaleno di un genio in mezzo al pubblico. Finita la canzone torno da Luisa che prontamente mi restituisce il vinile: io nel mentre mie ero quasi scordato di questo piccolo grande dettaglio tanto che ero stato rapito dall’intensità del momento. Con nostra sorpresa i nostri incantatori ci graziano di un’ultima traccia, direttamente dal primo album Songs of Praise e forse una fra le più esplosive: Gold Hole. Il nostro frontman preferito a questo punto monta direttamente sulla folla trascinandosi il microfono e si erge in piedi reggendosi su delle colonne umane fatte di mani e braccia. Sta per arrivare il momento clou del pezzo e vediamo Charlie che, mentre si impegna in un complicato gioco di equilibrio e canto, si prepara a lanciarsi sulla folla. Io allora mi aggrappo a Luisa e, in perfetto sincronismo con lo stesso Charlie (che intanto si era già tuffato per l’ennesimo stage diving), inizio a scuoterla e a berciarle «Shake me up» ripetutamente. Lei divertita si unisce al gioco e tempo di qualche battuta che il frontman è già tornato sul palco per salutarci col resto della band.

Dentro di me inizia già un piccolo lutto, avrei voluto che questa “epifania” continuasse ancora, ma si sa che nei festival gli artisti sono sì tanti, ma con poco tempo a disposizione ciascuno. Il lutto è interrotto soltanto dall’ascolto in sottofondo di quel pezzone di Sports dei Viagra Boys, che intanto iniziava ad essere riprodotto negli altoparlanti del Poplar. Questo mi ricollega subito al presente, e soprattutto alla mia importante missione: farsi firmare il disco dagli Shame. Velocissimo mi conduco alla sinistra del palco dove trovo alcuni addetti alla sicurezza. Chiedo inizialmente a loro indicazioni per riuscire nel mio intento, ma senza molti risultati. Mi rispondono con un tiepido «se il gruppo passa di qui non ci sono problemi» che lascia poche speranze. Nello stesso momento avvisto il mio alleato dello staff conosciuto poco prima allo stand dei glitter che mi riconosce avvicinandosi. Lui mi rassicura che riusciremo nell’impresa e intanto porta con sé quello che sembra essere uno fra gli addetti dello staff con più responsabilità. Lui estrae dalle sue tasche un grande pennarello nero, quasi come fosse già pronto a questa eventualità, e mi chiede di porgergli gentilmente il vinile. Io non ci penso due volte e glielo lascio, mentre intanto lo vedo dirigersi verso il backstage. Passati pochi, anche se interminabili, minuti lo vedo tornare con un grande sorriso soddisfatto. Mi restituisce il vinile che sul retro riportava le firme di ogni componente del gruppo. Io non so come reagire, ma nel mentre chiedo il nome di questo mio “deus ex machina”, Sascia, che ringrazio infinitamente e che ribattezzo “il mio salvatore”. Mi ricongiungo alla mia compagnia che felicemente increduli, e forse con un pelo d’invidia, si congratulano con me per la riuscita della mitica impresa.

Nel mentre intorno a noi un gran numero di persone iniziano a lottare per aggiudicarsi uno spazio con vista Alberto, Roberta e Luca (rispettivamente voce-chitarra, basso e batteria dei Verdena), un numero molto maggiore rispetto a quello visto fino adesso. Questo crea in me un piccolo senso di dispiacere: realizzo che gran parte del pubblico è venuto esclusivamente per il gruppo di Albino, senza considerare la fortuna di aver avuto due fra le band di maggior spicco e innovazione del panorama post-punk odierno (per lo più in Italia, un’eccezione assoluta!). Martina invece non sembra farsi prendere da alcun tipo di pensiero, tanto meno questo. È in totale estasi e con occhi sognanti per l’ormai imminente arrivo del suo gruppo preferito.

In effetti i Verdena non si fanno attendere e si presentano in compagnia di Carlo Maria Toller dei Jennifer Gentle, qua in veste di turnista per l’intero tour della band. Iniziano con Paul e Linda, pezzo proveniente dall’ultimo album Volevo Magia uscito lo scorso settembre. Qui si ribadisce la fissazione quasi maniacale del gruppo per i Beatles: infatti il Paul e la Linda del brano non sono altro che il celeberrimo Paul McCartney e la sua defunta moglie Linda Eastman. La scaletta continua con canzoni abbastanza recenti, fin quando non decidono di ripescare più a fondo, proponendo una delle hit più famose del loro omonimo primo album Dentro Sharon. Qua inizio a sciogliermi anche io, visto che conosco piuttosto bene il loro primo lavoro, uscito nel 1999 quando ancora si venivano etichettati “i Nirvana italiani”. Successivamente passiamo a Luna, forse la canzone che per prima mi ha fatto innamorare del trio alt-rock nostrano. Qua non solo mi sciolgo, ma mi unisco alle dolci parole di Alberto cantando col pubblico «Dipingimi, Distorto come un angelo anormale, Che cade». C’è da precisare che i testi dello stesso Alberto sono stati spesso criticati per mancanza di contenuti, ma questi testi hanno un particolare processo di creazione: prima sono scritti in inglese, poi tradotti in italiano con la tecnica del cut-up[4]dando però priorità alla melodia e musicalità delle parole, e non tanto alla mera traduzione. Poco dopo è il turno di Chaise Lounge, primo estratto dell’ultimo lavoro e molto apprezzato dal sottoscritto. Qua Alberto si diletta in un inaspettato assolo di chitarra, ma non elettrica, bensì con una Eko Futura acustica. Dopo qualche pogo e svariati stage diving arriviamo verso la fine del concerto ed è il momento di sganciare le ultime bombe: Valvonauta e Muori Delay. Sulla prima in particolare, nonché il loro pezzo più famoso, Roberta sfodera tutte le sue energie saltando costantemente e scuotendo freneticamente la testa, come solo una vera paladina del rock sa fare. Il trio lombardo chiude con Pascolare, lasciando il pubblico completamente estasiato per questa penultima data del tour.

Dopo quasi 7 ore di musica ininterrotta possiamo finalmente sederci e riprendere fiato con una meritatissima sigaretta. Ne approfitto per controllare sul telefono cosa sia successo al resto del mondo nel mentre. Scopro dunque che la mia Fiorentina ha vinto allo scadere contro i rivali in classifica dell’Atalanta. L’ennesima conferma di aver vissuto una più che memorabile giornata.


 
 

[1] Seminale serie TV a carattere fantascientifico, conosciuta in Italia anche col titolo di “Ai confini della realtà”, trasmessa per la prima volta dalla televisione americana nel 1959.

[2] È un famoso slogan anglofono tornato fuori recentemente a seguito dei nuovi decreti del governo inglese che favoriscono potere alla polizia e maggiori criteri di criminalità. In particolare sono state proposte severe condizioni per proteste e manifestanti, con rischio di incarcerazioni fino ai 10 anni.

[3] Quando in un concerto il pubblico si dispone in cerchio a formare una zona interna vuota, nella quale si può scegliere di entrare per fare moshing (un ballo molto energico e aggressivo, più comunemente detto pogo). È comune trovarlo in concerti heavy metal o punk, ma anche nell'hip hop, e solitamente è il cantante a incitare il pubblico a farlo.

[4] È una tecnica letteraria stilistica che prevede il tagliare fisicamente un testo in singole parole o frasi, mischiandone poi i vari frammenti per comporre così un nuovo testo senza filo logico e senza seguire la corretta sintassi.

 
 
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