Massimo Silverio - Hrudja (Okum, 2023)

"Dulà vastu, nôno?" - "in Nijò" ( "Dove vai nonno?" - "in nessun luogo" )

23 Novembre 2023

- "Dulà vastu, nôno?" "dove vai nonno?" -  chiedeva il bambino, - "in Nijò" - replicava il nonno, che in lingua Carnica significa "in nessun luogo". Questo è il racconto che Massimo Silverio trentunenne musicista, polistrumentista e cantautore di Cercivento (UD) fa a proposito di "Nijò", una sua canzone che significa appunto "in nessun luogo", ma allo stesso tempo “ovunque”. Nulla di più appropriato di questo termine per descrivere una musica atemporale, sospesa a fluttuare in uno spazio-tempo indefinito e imprecisato, lontana da ogni definizione e genere. Sonorità arcane, immerse in una sacralità pagana ed ancestrale, portatrici di memoria storico-geografica, che il cantato flebile ma indelebile in una lingua minoritaria come quella Carnica riesce a trasmettere con trasporto e grande sensibilità. Una lingua dura come la roccia carsica, ma al contempo dotata di una inaspettata musicalità, con le metriche e il gusto della villotta, tipica ed antica forma polifonica friulana, caratterizzata da particolarità non solo etimologiche ma anche geografiche uniche.

Hrudja è il titolo del meraviglioso album di debutto di Massimo Silverio, che vede finalmente la luce dopo due brevi Ep autoprodotti (Ø e O) pubblicati tra il 2020 e il 2021. Hrudja è la crosta che si forma sulla pelle al rimarginarsi di una ferita, che può scomparire senza lasciar traccia, oppure cicatrizzare conservando memoria di sé: rinascita e guarigione, ma anche emblema, ricordo di qualcosa che sta scomparendo.

Costruita su un drone dark-ambient di violoncello, la voce di Massimo, filtrata e noise, si fa lamento inquietante e alieno, nella cupissima e spettrale "Šchena", "Schiena" nella traduzione in italiano. Il volto del "Padre, la severità": «– (Sei) Mandibola in pietra e tarassaco – (Sei) Mandibola d’Argento – (Sei) muscolo, nervo e respiro – (Sei) muscolo e vento -» recita il testo che richiama in metafora la tradizione di un popolo di montagna, di regioni di confine. Un falsetto di stampo Jónsiano accompagna un brano electro-folk come "Criure" (Freddo, arido), dove il canto sommesso, riflessivo e dal sapore shoegaze, sussurra melodie primigenie alternate a samples vocali. È il racconto di un Nord-Est di cui forse non si ha più memoria, narrante di «Peç» e «Dane», l’abete rosso e l’abete bianco, che come due amanti si abbracciano per difendersi dal «Tùcul», il «Diavolo» che inesorabilmente come il gelo e l’aridità trascende il tempo e le stagioni (della vita). Drumming post-rock marziale, sincopato, ossessivo, chitarre distorte, quasi il monito di un genitore nei confronti del figlio «Bocje mȇ / Bocca mia; Code mȇ / Coda mia»: questo è il doloroso insegnamento di "Jevâ", drastico ma necessario ritorno alla realtà. Nel video che accompagna questa traccia diretto dal documentarista Giulio Squarci con la fotografia in bianco/nero contrastato di Bruno Beltramini, viene presentata "La Femenate (donnaccia o strega)", antico rito friulano risalente alla cultura Celtica, a suggellare un rituale propiziatorio sul raccolto dell’anno successivo. Una grande fascina a forma di rombo, simbolo degli aspetti negativi dell’anno appena trascorso, viene bruciata il giorno precedente l’Epifania.

Onirica ed enigmatica, "Colâ" rapisce con le sue allegorie angoscianti, sfoggiando in tale occasione un’inusuale ma originale crasi tra la lingua carnica e l’inglese, tra arpeggi di chitrarra acustica e una batteria minimale e cadenzata, così come nella malinconia cantautoriale della bucolica "Nijò".

La timbrica volge su un registro più basso alternandosi nuovamente al falsetto nell’oscura poesia pagana di "Grusa". Una ferita ancora aperta, dolente che fatica a rimarginarsi, dove il cantato si fa tormento e lamento, cerca rassicurazione, implora salvezza, fino ad un accenno di catarsi; «Tuna Agrima il dȗl dȗl / Lava Agrima e dȗl vie», «In una lacrima, il dolore / Lava lacrime e dolore, via». Dolore che lascia completamente spazio alla serenità, alla pace, nella meravigliosa "Ŝcune" (Culla), eterea, impaplabile, celestiale poesia dall’aura quasi mistica e trascendentale. Una lieve risonanza elettroacustica a fare da tappeto sonoro, sulla quale Silverio tesse una melodia scarna, spoglia, circondata dal controcanto echeggiante in lontananza, in una sospensione fluida rappacificante e rassicurante. "Piel" è una piccola ballad che accarezza livemente la pelle (Piel appunto), tra corde pizzicate di chitarra e beats indie-folk, fino ad un’inatteso epilogo fatto di field recordings, campionamenti vocali, e sonorità semi-industrial. Note distillate di piano preparato, ogni sillaba del testo di "Algò" è scandita/recitata, mentre l’incedere regolare del canto in una sorta di dimensione sonno/veglia si fa a tratti Yorke(iano), ammaliante ed estraniante allo stesso tempo. Notturna, crepuscolare, minuta e protettiva come il grembo ("Grim") materno, è la degna conclusione di un album insolito (per il panorama italiano), dove tradizione e modernità si fondono egregiamente, creando un piccolo gioiello nascosto tra le crepe di una parete rocciosa, che vale la pena scoprire.

 
 

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