La mia (seconda) maratona di New York!

La regina dell'atletica raccontata dagli occhi del nostro conduttore Alex Past Dance!

19 Dicembre 2023
 - Alex Dj

La disciplina “regina” dell’atletica è sicuramente la maratona… E la “regina” delle maratone è senza ombra di dubbio quella che si svolge ogni anno nella prima domenica di novembre a New York. Per il sottoscritto, quella del 2023 è stata la seconda volta, dopo quella dell’anno scorso. Allarme spoiler: la Maratona di New York è come la mafia…  Once you are in, there’s no way out! Della maratona di New York si potrebbe parlare delle ore e molto è già stato scritto…  Quindi, per non annoiarvi, cercherò di trasmettervi le mie emozioni ripercorrendo, miglio dopo miglio, quel glorioso tracciato che va dal ponte di Verrazzano a Central Park.

MIGLIO 0

Prima di iniziare a correre vale la pena domandarsi: cos’è la Maratona di New York? La Maratona di New York è una corsa lunga 42 km(e 195 metri!) – anzi, 26,2 miglia – che, partendo dal ponte di Verrazzano e arrivando fino a Central Park, tocca i 5 grandi distretti di New York: Staten Island, Brooklin, il Queens, Manhattan e il Bronx.  Le sue origini risalgono al 1970, quando Vincent Chiappetta (di chiare origini italiane!) e Fred Lebow decisero di organizzare una maratona all’interno di Manhattan: alla sua prima edizione parteciparono solo 127 atleti che compirono un periplo del perimetro di Central Park per quattro volte e mezza. Cinque anni più tardi, nel 1975, prese forma quel tracciato che, grosso modo, viene seguito anche ai giorni nostri. Se alla prima edizione, alla linea di partenza erano presenti solo 127 atleti, oggi gli iscritti sono oltre cinquantamila… Ma gli aspiranti al pettorale sono molti di più! Infatti, a differenza di altre maratone, per aggiudicarsi l’ambito pettorale bisogna vincere una lotteria, che si svolge ogni anno verso dicembre: la probabilità di essere estratti, però, è davvero bassissima… Meno del 2%! Basti pensare che quest’anno hanno tentato la sorte circa 128.000 runners. Per fortuna però esistono altri metodi per ottenere il pettorale, senza passare dover passare per forza dalla lotteria: conseguendo tempi specifici in maratone e mezze maratone nell’anno precedente, correre per un’associazione di beneficienza riconosciuta internazionalmente, raccogliere circa 2600 euro per l’associazione Team For Kids, essersi iscritto a 9 gare (più 1 come volontario) organizzate dal New York Road Runners club, oppure tramite dei Tour Operator che forniscono un pacchetto comprensivo di hotel+pettorale, l’opzione più accessibile per chi non è newyorkese. Una volta ottenuto il tanto ambito pettorale inizia già la tua maratona: mesi e mesi di duri allenamenti e sacrifici perché una maratona, specie una impegnativa come New York, non s’improvvisa. Per noi italiani, soprattutto, la preparazione è molto dura perché i mesi clou del programma di allenamento sono in piena estate: il che significa rinunciare a tirar tardi con gli amici, sveglie all’alba per allenarsi e tanto, tanto caldo… Ma sono sacrifici necessari per affrontare quella strada che, come recita il claim principale della maratona di New York, ti porterà ad essere “from zero to hero”.

Maratona alex

Miglio 1

Siamo arrivati a New York. Abbiamo dormito poco per via del fuso orario, del traffico e dei lavori in corso onnipresenti a Manhattan (nel mio caso specifico il dolce suono di un camion che triturava archivi di metallo provenienti dagli uffici di fronte) … Ma poco importa: è già l’alba. Bisogna alzarsi, fare colazione (meticolosamente preparata la sera prima, allo scopo di avere la dose giusta di energie, senza esser costretto a dover espletare funzioni corporali impreviste durante la gara) e scendere in strada, dove si salirà sull’autobus che mi porterà a prendere il battello per Staten Island. Prima di scendere, però, uno rapido sguardo alla temperatura: non fa caldissimo, quindi decido di indossare, sopra la tenuta da corsa, una vecchia felpa che, poco prima della partenza, potrà essere gettata in un apposito contenitore e donata ai senzatetto di New York. Il viaggio sul battello da Manhattan a Staten Island è breve, giusto il tempo di un rapido saluto alla Statua Della Libertà. Giunti a Staten Island è la volta di salire su di un vecchio scuolabus giallo che mi porterà al village di partenza, ai piedi del ponte di Verrazzano. Buttando uno sguardo fuori dal finestrino non sembra nemmeno di essere a New York: casette di legno bianco, barbecue in giardino, portici con il dondolo ancora addobbati per Halloween… Sembra di essere stati catapultati in qualche cittadina della classica provincia americana che siamo abituati a vedere in tanti film.
Arrivati a destinazione, è la volta di salutare parte dei miei compagni di viaggio perché ognuno, infatti, sarà smistato in base al proprio pettorale: il colore determinerà il punto di partenza (sopra a dx, sopra a sx o sotto il ponte), il numero di wave l’orario di partenza e la lettera del corral la gabbia di partenza.  Una volta liberatomi dell’abbigliamento superfluo, essermi accaparrato l’ambito berretto della Dunkin’ Donuts e aver fatto due coccole ai cani, messi a disposizione dall’organizzazione per scaricare l’ansia con la pet therapy, è ora di raggiungere la linea di partenza. In pochi minuti mi trovo sul ponte di Verrazzano: parte l’inno americano e tutto viene avvolto da un silenzio carico di emozioni… Si riesce quasi a percepire il battito di migliaia di persone e un brivido ti sale lungo la schiena. Poi, all’improvviso, un colpo di cannone rompe questo silenzio irreale: sulle note di New York New York di Frank Sinatra, la mia (seconda!) maratona è iniziata.

Miglio 2-4

Quella del ponte di Verrazano è la salita più lunga del tracciato… Per fortuna è all’inizio! L’errore principale che quasi tutti i runner fanno è quello di partire a cannone in questa parte iniziale, spronati dall’eccitazione del momento: state sicuri che la pagherete, New York non concede sconti. Personalmente, l’ho presa con molta tranquillità, fermandomi addirittura a fare qualche foto a questa iconica location. In ogni caso, una volta scavallata la sommità del ponte, man mano che si scende, s’inizia a sentire un brusio in lontananza che diventa sempre più forte… Ai piedi del ponte, dopo una secca svolta a sinistra, questo brusio si è trasformato in un boato: welcome to Brooklyn! Questo gridano i primi spettatori ai lati della strada, facendomi subito capire quale sarà l’atmosfera che mi accompagnerà per tutta la gara… Ma di fatto non è che un assaggio di quello che mi aspetta. Infatti, è quando si giunge a Bay Ridge, al quarto miglio, che la vera festa ha inizio: lungo tutta la 4th Ave migliaia di persone sono lì a gridare il tuo nome e a incitarti, manco fossi Messi o Micheal Jackson. È   impossibile correre guardando dritti davanti a sé… Passerò gran parte della gara a ricambiare i sorrisi degli spettatori e a dare più cinque di quanti non ne abbia mai dati in vita mia. È questa la forza di New York: non importa il sesso, la razza o quanto corri veloce… Quel giorno, anche l’ultimo degli stronzi come il sottoscritto, è trattato come un eroe!  E, in una città molto “fredda” ed egocentrica come New York, l’impatto è ancora più spiazzante… Magia della maratona! Oltre le braccia alzate degli spettatori, posso ammirare anche il quartiere di Bay Ridge, che ospita i primi km della corsa. Questo quartiere, non a caso, è la casa di Tony Manero, protagonista della celebre pellicola La Febbre Del sabato Sera. Infatti, generazioni di immigrati irlandesi, greci, italiani, ma anche arabi, asiatici e russi rappresentano il tipico melting pot che abita questa zona. Questo melting pot non è solo etnico, ma anche religioso: moschee accanto a chiese, in completa armonia e rispetto reciproco… Questo è ciò che è davvero Brooklyn.

Miglio 5-9

Proseguendo il nostro viaggio verso il cuore di Brooklyn, giungo a Sunset Park.

Questa zona prende il nome dal parco considerato uno dei tesori nascosti di New York, dalla cui cima si possono godere dei fantastici tramonti sulla Statua Della Libertà. Purtroppo il parco è solo sfiorato dal percorso, ma mi son ripromesso di tornarci… Magari con una buona birra nascosta un sacchetto di carta: già, perché a New York non è consentito consumare alcool in pubblico. In compenso, dall’anno scorso è consentito l’uso di marijuana a scopo ricreativo, con la conseguenza che l’odore tipico della Grande Mela, un misto di scarichi di vecchi taxi e di hot dog, ha lasciato il posto a un odore del tutto nuovo, decisamente più acre.

Altra caratteristica particolare di Sunset Park è rappresentata dai loro abitanti: per metà ispanici e metà cinesi… Decisamente una commistione di usi e costumi originale, no?  Ah, se volete farvi un’idea del flusso di runner che attraversano questo tratto durante la maratona, in internet potete trovare un curioso time lapse fatto dal celebre fotografo Benjamin Norman. Tornando alla corsa, verso il miglio 7, sulla sinistra troviamo Gowanus, zona industriale e popolare, mentre a destra c’è Park Slope, zona residenziale di tendenza - non a caso considerata uno dei migliori quartieri di New York -  abitata da celebrità e artisti. Quando ci sono passato ho pensato che questa zona rappresentava bene, anche a livello sociale, le due facce della Grande Mela. Una volta usciti dalla 4th Ave, all’incirca al miglio 9, si arriva nel cuore di Brooklyn: un passaggio stretto avvolto da una pioggia di foglie e brownstone – le tipiche case di mattoni - dove gli spettatori si accalcano letteralmente ai bordi della strada, creando un frastuono incredibile… Mi ricordo che ho provato quasi fastidio alla centesima volta che sentivo rimbombarmi nelle orecchie “Go AleX!”. A proposito, tradizione tutta newyorkese vuole che ci si stampi il proprio nome sulla maglia, accanto al pettorale, in modo che tutti gli spettatori possano acclamare il tuo passaggio. A coprire un po’ le urla degli spettatori, in questo tratto come in tutto il resto del percorso, ci sono diverse band che suonano. La migliore, a mio avviso, è sicuramente quella che troviamo in questa zona: la Bishop Loughlin Memorial High School Band, che tutti gli anni dal 1979 e per tutto il giorno della maratona suona, ininterrottamente, sempre e solo il tema di Rocky

Miglio 10-13

Continuiamo la nostra corsa attraverso Brooklyn. Intorno al decimo miglio passo attraverso il quartiere di Bed-Stuy, un tempo uno dei quartieri più popolari e difficili di tutta Brooklyn, abitato prevalentemente da afroamericani, tanto da guadagnarsi il titolo di Harlem di Brooklyn.  Man mano che corro verso nord, incontro un fenomeno decisamente anomalo per questa corsa: il silenzio. Ci troviamo a South Williamsburg, cuore della comunità ebrea ortodossa. Per gli ebrei la domenica è un giorno lavorativo qualsiasi, quindi c’è una quasi totale indifferenza per la Maratona. Anzi, Fred Lebow, padre della Maratona di New York, dovette faticare non poco per ottenere dal rabbino il permesso di attraversare il quartiere con la gara. In questo silenzio irreale ho però un ricordo meraviglioso: una bambina che, quasi di nascosto, mi ha allungato un bicchiere d’acqua… Sono ricordi che ti rimangono intrecciati al cuore per il resto della vita. Proseguendo, arrivando a Bedford, il silenzio lascia posto alla solita festa e torno ad esser avvolto da quel tifo smisurato del quale cominciavo a sentirne quasi la mancanza. Dopo Bedford è quasi ora di lasciare Brooklyn passando per Greenpoint, un quartiere che una volta era praticamente un’enclave polacca. Così come polacco era il generale che diede il nome al Pulaski bridge. Sono ormai al giro di boa della mezza maratona, ed è il momento di fare un piccolo check delle condizioni psico-fisiche: il fiato c’è, la testa pure e le gambe sono abbastanza leggere, nonostante il continuo saliscendi (ma la sensazione è che sia tutta in salita!). Mezza gara l’abbiamo portata a casa, forse una volta attraversato il ponte posso anche pensare di iniziare ad “attaccare” il mio personale e ad andare più veloce. Con questi pensieri che mi affollano la mente, saluto gli amici Giulia e Anton che son venuti a fare il tifo qualche centinaio di metri prima del ponte e mi accingo ad imboccare la salita del Pulaski: è giunta l’ora di lasciare Brooklyn e puntare al Queens.

Miglio 14-15

Dalla cima del Pulaski bridge si può finalmente ammirare lo skyline di Manhattan, con l’Empire State Building e il Chrysler Building che si stagliano maestosi… Central Park non sembra poi così lontano. Mentre percorro il ponte decido camminare qualche minuto per premiarmi dello sforzo compiuto finora e riprendere fiato ma, una volta sceso e pronto per ricominciare la mia corsa ho una brutta sorpresa: crampi, stramaledettissimi e dolorosi crampi. I crampi, per chi non lo sapesse, dopo le distorsioni sono le cose peggiori che possono capitare a un runner. Nel mio specifico caso sono arrivati all’improvviso a entrambe le gambe. Mi fermo, faccio stretching, provo a ripartire: niente, stanno ancora lì a far sentire la loro voce. Cammino cinque minuti, ci riprovo… Niente. Cammino altri cinque minuti, stretching, ci riprovo: niente… Son davvero cazzi. Nella mia mente iniziano a farsi spazio brutti pensieri: “sei un coglione, perché hai saltato i ristori?”, “mi toccherà ritirarmi?”, “come faccio a fare altri 20 km se ho male anche solo a camminare?”. Poi mi son ricordato di una cosa fondamentale: la maratona è soprattutto una questione di testa. Ho preso un bel respiro e, per scacciare dalla mente i pensieri negativi, ho iniziato ad analizzare la situazione: “Ok, la situazione non è delle più favorevoli, ma vediamo quali frecce ho a disposizione nel mio arco: l’esperienza, la tenacia, un buon allenamento – anche mentale - alle spalle e delle persone che da New York o da casa mi stanno seguendo e credono in me. Bene, non so come, ma in qualche modo la porteremo a casa, costi quel che costi. E poi siamo già nel Queens, il che significa due quartieri andati, 3 more to go”. Il Queens, in origine popolato soprattutto di italiani ed irlandesi e nato come una grande zona industriale, ha subito una vera e propria rivoluzione nel corso degli anni, ma il retaggio della “working class” è ancora vivo nella sua architettura, specie nella zona dei moli sull’East River. Tornando alla gara, l’incitamento della folla aiuta un pochino a sentire meno il dolore ma la spaventosa sagoma del Queensboro Bridge fa capolino all’orizzonte: per questo, prima d’iniziare la scalata, al ristoro mi bevo quattro bicchieri di Gatorade per cercare di ripristinare un po’ quei sali minerali che mi mancavano – probabile causa dei crampi - e ammorbidire un po’ i muscoli.

Miglio 16-17

Eccoci quindi ai piedi del temutissimo Queensboro Bridge, che collega il Queens a Manhattan. Siamo solo al venticinquesimo km ma la pendenza della salita sembra quella dell’Everest. I crampi e il dolore mi costringono ad affrontare il Queensboro camminando e, arrivato in cima, colgo l’occasione per riprendere un attimo fiato e godermi lo splendido skyline di Manhattan. Mi concedo pure una foto, sentendomi quasi un esploratore alla conquista della vetta del K2: dovessi lasciarci le penne, i posteri potranno ricordare che almeno a lì sono arrivato.  Sulla sinistra si possono intravedere anche i mitici Silvercup Studios, praticamente la Hollywood di New York. Moltissimi film e serie TV sono state girati in questi studi: tra le più famose Sex & the City, The Sopranos, Gangs of New York, II Diavolo veste Prada e il mitico Highlander (vi ricordate il famoso duello finale tra le lettere dell’insegna Silvercup?). Tornando alla corsa, finalmente inizia la discesa, avvolta da un silenzio quasi spettrale, ma utile per riorganizzare le idee. Ho deciso, opterò per il caro e vecchio metodo Galloway: frazionare un minuto corsa e un minuto camminata e, se poi ce la sentiremo, aumenteremo la frazione di corsa. Man mano che scendo dal Queensboro il silenzio è rotto da un brusio che si fa sempre più forte… Ai piedi del ponte quel brusio si trasforma in un boato: “Welcome to Manhattan!”. È questo quello che urlano le migliaia di persone che affollano i lati della strada… E tu non puoi non sentirti un eroe. Frank Shorter, vincitore di due medaglie olimpiche e di 3 Maratone di New York, una volta disse: "Se quando raggiungi First Avenue non ti viene la pelle d'oca, c'è qualcosa in te che non va". E, vi assicuro, è assolutamente vero. Mancano ancora circa 15 km, ma la gente ti urla già” C’mon, you did it!” … Vuoi non darle ascolto?! All’ingresso della First Avenue non incontro, stavolta, il mio amico Tommy, che mi ha accompagnato anche in questa avventura newyorkese come supporter. Ricordo che, l’anno scorso, alla domanda “Come sta andando?”, risposi un serafico “Bene, ma figa… È tutta salita!”. 

Miglio 18-20

La First Avenue taglia quasi completamente Manhattan da sud a nord. Una lunga strada dritta con diversi saliscendi che si fanno sentire sulle gambe: non per niente Manhattan è il nome con cui gli indiani Lenape, antichi abitanti del luogo, hanno battezzato questo lembo di terra, la cui traduzione è isola dalle molte colline.   Il cuore della First Avenue è l’Upper East Side, considerato, non a caso, una delle zone più eleganti della città, dove possiamo trovare alcune strade simbolo entrate nell’immaginario collettivo, come Park Avenue e la celebre Fifth Avenue. In mio aiuto viene ora la possibilità di contare le Street, dalla 77th fino alla 96th: blocchi lunghi circa 80 metri ciascuno… Dopotutto, per sentire meno la fatica bisogna inventarsi anche dei piccoli trucchi mentali per distrarsi. Corro, quindi, costeggiando Central Park, in direzione Nord puntando verso il Bronx, non prima però di aver attraversato la zona che più mi è rimasta nel cuore durante tutta la corsa: Harlem. Harlem, come saprete, è un quartiere di Manhattan abitato principalmente da afroamericani, per molti anni considerato un posto – diciamo - “difficile”. Le condizioni di semi-povertà in cui versa gran parte della popolazione di Harlem, rendono questo quartiere un mondo a sé rispetto agli scintillii dell’Upper East Side. Zona in origine prettamente rurale, negli anni venti Harlem fu la culla del cosiddetto rinascimento afroamericano,  il cui araldo fu senza ombra di dubbio la sua musica. Possiamo dire che la musica sia stata la vera voce di Harlem nel corso degli anni: jazz, blues, soul ma anche hip hop e rap sono sempre stati più che semplici note su di un pentagramma, bensì un vero e proprio stile di vita… E il tempio di questo stile di vita sono proprio le strade di Harlem. Infatti, durante la corsa, decine di dj suonano hip hop lungo le strade, trasmettendo un il suo unico e inimitabile groove. Non solo, c’è perfino una signora anziana che, senza amplificazione, canta Aretha Franklin a cappella… Vi giuro che per un attimo ho creduto di esser morto e di aver raggiunto la celebre cantante soul! Un altro ricordo bellissimo che ho di questo quartiere è un signore anziano che offriva Coca Cola a tutti i runner… Alla luce delle condizioni economiche disagiate di Harlem, quel semplice gesto acquisisce ancora più significato: sono cose che non dimenticherò mai. Con la gioia nel cuore e buona musica nelle orecchie - che rende le gambe più leggere -  salgo sul Willis Ave Bridge: siamo al miglio 20, il Bronx ci attende.

Miglio 21-26.2

"Weeeeelcome to the Bronx!”, questo il mantra che rimbomba nelle mie orecchie urlato dai suoi orgogliosi cittadini – forse i più orgogliosi dei New York! -.  Finalmente, giù dal Willis Bridge, sono all’ultimo quartiere. Il tracciato attraversa il Bronx solo per 2 km ma, se vi sembra poco, pensate che una volta era molto meno: fino a qualche anno fa, per via dell’alto tasso di criminalità che caratterizzava questo quartiere, ci si limitava a scendere dal ponte, girare intorno ad un lampione e tornare indietro subito verso Manhattan, passando sempre per il Willis Bridge. Tornando all’ hic et nunc, siamo quasi al km 34 e, grazie ai Gatorade e a un sacchetto di salatini dalle proprietà miracolose fornitomi da una gentile dottoressa dell’assistenza medica, i crampi stanno sparendo: pian piano acquisisco così la consapevolezza che mancano “solo” 8 km. Si dice che la maratona sia 30km gambe, 10km testa e 2 cuore… Bene, se voglio battere il mio record personale, è giunta l’ora di gettare il cuore oltre l’ostacolo e giocarsi il tutto per tutto: correre senza mai fermarsi fino al traguardo – or die trying!  L’ostacolo, non solo metaforico, è rappresentato dal Madison Ave Bridge, l’ultimo ponte della gara: una volta scavallato, d’un tratto mi ritrovo di nuovo a Manhattan, più precisamente sulla celebre Fifth Ave.Inoltre, con mia grande gioia, attraverso di nuovo Harlem e la sua avvolgente energia intrisa di good vibes: non mi ricordo di aver mai dato così tanti cinque in vita mia come ad Harlem! Come nei videogiochi, c’è anche gente con dei cartelli con scritto “Touch here for Power Up!”: come farsi sfuggire un’occasione del genere? Sarà che mancano pochi km, sarà il groove di Harlem, sarà il sole che sta tramontando e il fascino delle prime luci dei grattacieli che si accendono… Ma ora mi sto - quasi - godendo il dolore! Inoltre, gli americani avranno tanti difetti… Ma hanno un grande amore per lo sport e soprattutto un’innata empatia per lo spirito di sacrificio che ne comporta. Stai lottando per non mollare? Stai soffrendo? Loro soffrono e lottano con te. Il loro grado d’immedesimazione è tale che non conta se sei un atleta d’elite o l’ultimo degli stronzi: per gli americani sei un mito… E te lo fanno capire urlando il tuo nome e volendo a tutti i costi battere il classico “high five” come se fossi Michael Jordan. Sicuramente la mitizzazione della figura dello sportivo negli States meriterebbe un racconto a parte, ma forse è meglio a tornare all’hic et nunc. Allora via in direzione sud, con la colonna sonora di Rocky in testa, toccando luoghi iconici come l’Apollo Theatre e il Duke Ellington Circle, fino ad entrare finalmente a Central Park. Il sole è ormai tramontato e a far capolino tra le fronde degli alberi sono le mille luci di New York… È tutto esattamente come me l’ero sognato. Percorro gli ultimi km con la testa all’insù ad ammirare le luci dei grattacieli e cerco di imprimermi nella mente quegli istanti che so rimarranno per sempre nel mio cuore. In quei momenti un caleidoscopio di pensieri affolla la mia mente. Ripenso alle caratteristiche uniche di ciascun quartiere: l’esplosione di energia di Brooklyn, l’empatia del Queens, la “passerella” glamour dell’Upper East Side di Manhattan in contrasto con l’anima calda di Harlem, l’orgoglio del Bronx… Centinaia di sguardi, vite e storie che ho incrociato. Ripenso agli estenuanti allenamenti con il caldo di agosto. Ripenso agli infortuni che mi hanno seguito nell’ultimo anno e alla paura di non farcela. Mentre la mia mente è affollata da tutti questi pensieri affronto una piccola salita… E poi la vedo, maestosa, a pochi metri da me: la finish line. Percorro gli ultimi metri sul lato sinistro della strada, stendendo la mano e dando il cinque a tutto il pubblico, fino ad attraversare la linea del traguardo. Ce l’ho fatta anche stavolta: ho corso 42,195 km… Ma soprattutto non ho mai mollato, riuscendo così a trasformare il mio giorno peggiore in quello migliore da quando ho iniziato a correre. La gioia è incontenibile… Mi giro e, rivolto al pubblico, con tutto il fiato che ho in corpo, grido: “I love you New York!”.  

 
 

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