Guardali negli occhi: la consapevolezza e l’affermazione dell’identità femminile nell’arte di Monica Zeoli

Intervista a cura di Mirco Salvadori

1 Febbraio 2024

Inizierei questa conversazione con la frase di un pittore che da subito, dopo essermi scontrato con la forza espressiva del tuo gesto artistico, mi hai ricordato. Lucien Freud dice: quando guardo un corpo so che mi dà la possibilità di scegliere cosa mettere in un dipinto; cosa mi andrà bene e cosa no. C'è una distinzione tra fatto e verità. La verità ha in sé un elemento di rivelazione. Se qualcosa è vero, non colpisce semplicemente perché è vero. Amerei sentire il parere di Monica Zeoli, disegnatrice e ritrattista che ha la medesima capacità nel rivelare la verità, attraverso il suo segno sulla tela.

Freudè uno dei miei più grandi riferimenti, non è per niente sbagliato citarlo. Il suo modo di rapportarsi ai corpi, sia a livello tecnico che concettuale, è per me fonte di grande stima e ispirazione.

“Fatto e verità”, poi, sono alla base del percorso che ho intrapreso lavorando al progetto Sineddoche, per quanto, parlare di Verità in arte, sia un terreno piuttosto scivoloso.

Per non entrare poi nell’ambito dell’auto percezione femminile!

In una conversazione si dovrebbe partire dall’inizio, dalla biografia dell’artista, i suoi primi passi nel mondo della pittura o, come nel tuo caso, del ritratto. Si dovrebbe chiedere quale sia stato il tuo percorso ma tutto ciò passa in secondo piano, rispetto la forza del segno che travolge chi lo guarda, in particolare se tale visione si presenta allo sguardo di un uomo. La tua arte è gesto introspettivo che esplode sulla tela, lancia messaggi in una lingua decisamente femminile, specialmente e lo ripeto, se osservata da un uomo, una linguaggio però che può trasformarsi da femminile a “femminista”, se mi permetti il termine. Riesce a dire moltissimo, denuncia, urla attraverso opere che sanno descrivere i molti aspetti della condizione femminile, tra cui quello legato alla disparità di genere tutt’ora imperante.

Quando frequentavo l’Accademia di Belle Arti, mi divertivo a fare un gioco: guardando i disegni e i quadri appesi nelle aule provavo a indovinare quale fosse opera di una mano femminile e quale maschile. Non amavo, e non amo, il segno delicato, misurato, forse incerto e timoroso che magari ingenuamente, associavo alle opere di alcune mie colleghe. Personalmente ambivo a un tratto forte, ruvido e baldanzoso e nel mio intimo, legavo queste caratteristiche a una mano “maschia”. 

A discolpa di questa generalizzante teoria va detto che il mondo dell’arte era (ed è) indubbiamente dominato dalla presenza maschile, ed io per prima avevo quasi esclusivamente pittori uomini come riferimenti artistici.

Era una ricerca di identità che passava attraverso il segno artistico e che proprio non voleva rischiare di essere incasellato tra le “dolcemente complicate”.

Anni e fogli dopo ho fatto pace con quella frettolosa schematizzazione giovanile. Non lo so se la lingua che parlo sia decisamente femminile, come dici, ma usando le parole di Jenny Saville, un’altra artista che amo molto, oggi direi che «proporre un’unica “teoria femminile” o un “modo femminile” di guardare o fare arte mi sembra regressivo, queste limitazioni insite nei sistemi binari di genere escludono potenzialmente altre voci artistiche interessanti per tutti i generi; è fondamentale andare oltre questi sistemi sociali e superare i confini per essere se stessi».

Prima ho accennato all’introspezione o per meglio dire all’intimità di una persona. Nei tuoi lavori questa confidenza con il proprio corpo, questo amore o il più delle volte questo malessere, viene messo in primo piano, è la condizione necessaria allo svolgersi del racconto che quell’immagine andrà ad interpretare. Si torna alla verità di cui parlava Freud, al reale lontano anni luce dall’artefatto, a ciò che realmente è. Spiegaci come sei giunta a questa modalità espressiva, quale la spinta che ti ha indotto a seguirla e come la realizzi dal punto di vista tecnico, non avendo di fronte a te i soggetti che stai ritraendo.

Non amo gli artifici, nell’arte come nella vita, quindi per me lavorare con corpi e persone concrete è necessario.

Il rapporto con il corpo che ci ospita è un tema che da sempre mi coinvolge e affascina.

Condiziona l’affermazione di noi stesse/i e i nostri giudizi sugli altri, le nostre relazioni sociali. E questo è frustrante per tutti.

Personalmente, da un punto di vista artistico, preferisco soggetti non strettamente appartenenti a canoni di bellezza stereotipati o viziati dall’estetica indotta, commercializzata e massificata. Adoro i “difetti” perché mi permettono di creare mondi originali e preferisco ritrarre persone complicate, che faticano a trovare quiete piuttosto di quelle troppo innamorate della loro immagine. Fortunatamente modelli del genere non mancano.

Per questo ho scelto il nome Sineddoche per il mio progetto che tratta questo tema, proprio per sottolineare come a volte un elemento singolo di una persona, magari marginale e trascurabile, finisca per diventare invece la cosa predominante.

Dal punto di vista tecnico, quando non ho vincoli di commissioni da rispettare, decido in base all’immagine e all’atmosfera che mi evoca quale strumento utilizzare.

Partendo da foto digitali a volte mi piace modificarne l’inquadratura, il contrasto o il colore in modo che le immagini su cui lavorare sia il più possibile neutra e chiara.

Raramente faccio bozzetti, prove o misurazioni; capita piuttosto che una fotografia mi spinga a realizzare più versioni ma, in linea di massima, sono una da “buona la prima”.

Il disegno a grafite è lo strumento che più mi diverte proprio per la sua versatilità, praticità e possibilità di movimento.

Il progetto artistico Sineddoche. Parlacene.

I corpi e i volti sono le cose che maggiormente amo disegnare, quindi sono costantemente alla ricerca di nuovi soggetti da ritrarre. Non amando, come dicevo, i selfie da social o le foto patinate dei giornali, ho chiesto ad alcune persone a me vicine di inviarmi dei loro ritratti, dandogli però come spunto iniziale un elemento che le portasse a guardarsi, e di conseguenza mostrarsi, in un modo non usuale.

“Regalami il tuo punto debole, o la cosa che ami di più di te. Fotografati in modo da entrare in relazione con essa, ma non svelarla”, così recitava più o meno il messaggio alla “The Ring” che si diffuse in quei giorni tra i miei contatti.

Non volevo rischiare foto da social, ammiccanti o “venute bene” e neppure fatte distrattamente, tanto per fare, e non ci sono state. Incredibilmente, data la particolarità della richiesta, mi sono arrivate tantissime foto, a volte anche accompagnate da messaggi di introspezione condivisa, di sorellanza, che mi hanno lusingato e motivato nel lavoro. E che mi hanno confermato quanto sul tema della consapevolezza e dell’affermazione di sé ci sia ancora tanto da dire e da fare.

Ho preso le foto come un passaggio di testimone e le ho fatte mie: ho deciso in maniera molto spontanea a cosa dare più risalto, cosa trascurare. Ho trovato la mia “rivelazione” e mi ci sono buttata senza imposizioni di tecnica e di visione, senza ansia da somiglianza e senza sbavature da edulcorare. Insomma, è stato un processo libero di liberazione.

Esiste un’immagine, tra le molte di questo progetto, che colpisce perché obbliga a sostenere lo sguardo seguendo il titolo stesso dell’opera che recita: “Guardali Negli Occhi”. E’ un disegno a caboncino e gessetti su cartone che presenta una donna dallo sguardo fieramente interrogativo, che ti guarda mentre posa in slip e maglietta seduta sopra un mobile, il braccio appoggiato al ginocchio, la gamba piegata, il tallone ben posato sul mobile stesso. Ciò che colpisce è la fiera naturalezza del contesto che stride con l’imbarazzato confronto che il nosto sguardo deve sostenere per continuare a guardarla negli occhi. Un’opera di una potenza espressiva assoluta che dimostra altresì la tua capacità di riassumere in uno sguardo l’affermarsi della consapevolezza femminile, dopo il lungo percorso per raggiungerla. Partendo da questo esempio ti chiedo quale ritieni sia il compito del tuo lavoro: autoconsapevolezza della donna, sensibilizzazione nei riguardi dell’universo femminle o l’insieme delle due cose.

È curioso che tu abbia scelto proprio questa opera per parlare per l’appunto, di questo (o forse sono stata particolarmente brava io a realizzarla!), ma il quadro ha una storia diversa dalle altre e, in effetti, parla più di altre dell’importanza dell’affermare la propria identità.

La ragazza ritratta è la giovanissima figlia di una cara amica a cui ho chiesto più volte, addirittura pregandola, di partecipare al progetto. Da brava adolescente non ci ha pensato neanche un momento a esporsi in tal modo per una cosa probabilmente giudicata da boomer. Ma ci tenevo a ritrarla a tutti i costi –  la conosco da quando è nata – e quindi ho “rubato” e lavorato sullo scatto realizzato da un comune amico.

Lo sguardo fiero di Nina, adolescente in questi tempi di rinnovato dibattito sul femminile, mi fa pensare e sperare che, probabilmente, qualcosa nelle nuove generazioni sta cambiando e che un giorno non sarà più necessario nascondersi e chinare lo sguardo.

La tredicenne di oggi è riuscita in ciò che a molte mie coetanee risulta ancora faticoso ed è proprio per l’affermazione della loro (e della mia) consapevolezza che questo progetto è nato.

Ultima domanda: oltre a Freud, chi o cosa ha ispirato il tuo gesto artistico?

Lucien Freud è sicuramente “uno dei”, assieme alle tante altre cose che ho visto e respirato da quando sono al mondo.

 
 
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