Report di "Fuori norma - Il conflitto delle passioni"

Giovedì 17 Novembre 2011 - Primo incontro della terza edizione del "Festival dei Matti" al Teatro Goldoni di Venezia. L'incontro - aperto dalla Dott.ssa Laura Barozzi della Cooperativa "Con-tatto" - ha poi visto come ospite d'eccezione il prof. Umberto Galimberti - filosofo e psicoanalista, intervistato da Anna Poma.

17 Novembre 2011

Come viene trattata la follia?
Come - nei secoli - evolve l'idea della sofferenza, del disturbo mentale?
Un escursus di Galimberti parte dalla medicina ippocratica del '500 con l'introduzione del concetto innovativo che la malattia e la salute dipendessero da specifiche circostanze della vita umana e non da superiori interventi divini.
Passando per gli anni a venire si arriva agli "Studi sull'isteria "di Freud  con il portato rivoluzionario che hanno assunto nell'ambito della concezione del disturbo mentale.
Si possono manifestare sintomi - come paralisi agli arti e stati di cecità ed altri ancora- senza implicazioni organiche.
Grazie alle teorie freudiane il paziente non viene giudicato come simulatore e punito dalla società con misure coercitive ma viene introdotto il concetto di cura ad ampio spettro: anche il "simulatore" può e deve essere curato.
L'esempio di Galimberti qui si fa chiaro anche ai non addetti ai lavori: il paziente che invece di chiedere al proprio marito "amami" perde improvvisamente la vista, cosicché  il marito sia costretto a prendersene cura, ad amarla perché è la società - per come è costituita - che lo impone.
L'utilizzo del corpo per chiedere disperatamente qualcosa, la simulazione come atto di necessità.
Il fallimento del linguaggio verbale perché esso non ottiene effetto o perché è imbarazzante l'atto del "dover chiedere".

"Perché noi si possa ascoltare un matto bisogna avere una competenza intorno alla follia e questa competenza non l'abbiamo, perché siamo folli anche noi".
Soltanto usando le nostre componenti folli, non temendole e separandole da noi possiamo trovare un tramite per venire in ascolto, in relazione con loro.
Con il semplice ascolto si potrebbero evitare di usare addirittura i farmaci.
La relazione è più terapeutica di quanto non lo sia la farmacologia in sé e per sé .
Noi nasciamo folli.
Ma questa follia non ci abbandona.
Attraverso vantaggiose e operative azioni dell'educazione (che è sempre stata una forma di repressione) questa dimensione di follia che abbiamo dentro non si smarrisce, rimane dentro di noi e abbiamo luoghi in cui possiamo verificarne la presenza : il primo luogo è il sogno, che è il teatro della follia.
Il sogno è il disordine della mente: viene fuori la nostra follia appena la coscienza si addormenta.

C. Jung dice che dovremmo smettere di parlare della coscienza nella formula dell' "essere coscienti".Bisognerebbe parlare della coscienza come "diventare, di volta in volta, coscienti".

Processi associativi che, in realtà, sono processi dissociativi dato che noi tutti siamo molto dissociati quando parliamo con noi stessi.
Siamo razionali solo al plurale.
I greci, oltre al singolare luogo della follia e al plurale luogo della ragione  - in cui ci produciamo - avevano messo nelle loro coniugazioni verbali il duale "io e te".
La follia allo stato puro: l'amore.
Gli innamorati dicono cose che sono veri e propri deliri: "[...]con te tocco il cielo con un dito." .
Sono espressioni deliranti certo, ma l'amore è una follia.
Questo l'aveva già detto Platone nel "Simposio" ma anche lo stesso S.Freud dice che l'amore è un delirio con il solo pregio di essere breve.
Però è una condizione delirante perché funzionano linguaggi che non sono i linguaggi della ragione.
Cosa vuol dire "ti amo"? Non è mai esauribile questo discorso e qui entra in gioco la follia: non funziona il reperto logico.
C. Jung diceva che nella prima parte della vita bisogna essere rigorosamente freudiani, S. Freud diceva "bisogna salvare l'io dall' inconscio".
Ma C. Jung poi afferma che nella seconda parte della vita, se non vogliamo annoiarci, è meglio recuperare alcuni motivi della condizione inconscia perché è solo dalla follia che nasce la creatività .
Dalla ragione non nasce nulla di nuovo, e' solo un sistema di regole per intenderci.
Se cominciamo ad usare questa dimensione folle allora possiamo cominciare a parlare con i folli.
Un parlare che non è un diagnosticare, che non è propriamente un ascoltare ma un entrare a poco a poco nel loro delirio.

Un abbassamento di livello mentale in cui entri in questa storia, in questo delirio. Con il pazzo non basta parlare e ascoltare, bisognerebbe praticare una sorta di complicità empatica col suo delirio e il delirio, a quel punto, si riduce.

Perché qualcuno ci crede.
Di chi siamo amici noi? Delle persone che credono in noi.
Partendo da qui possiamo lasciare tutto quel portato - pesantissimo - di pregiudizio storico carico di tutte quelle pratiche e di quei saperi che hanno escluso e ghettizzato le persone che si trovano in situazione di disagio mentale e che poi non riescono ad uscirne.
Dare la possibilità di un ascolto diverso e di una vicinanza, al contrario dell' allontanamento.
Il destino del folle non è segnato dalla sua condizione ma è segnato da chi li sta intorno.
Se c'è una comunità che esclude, che ha paura e che risponde con la privazione dei diritti, di opportunità, di protagonismo allora le persone possono diventare "pericolose".
D'altronde il lavoro di cura, è un arte.
Ed è più difficile di molte altre.
Prendersi cura significa accorgersi innanzitutto che c'è qualcuno davanti a me.
E quel qualcuno mi interpella.
Nel nostro tempo, nel qui e ora, non girarsi dall'altra parte è già un ottimo inizio, saper rispondere in modo adeguato è il compito più arduo.

 
 

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  • Intervista a Anna Poma e Umberto Galimberti
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  • Il Conflitto delle Passioni, Anna Poma e Umberto Galimberti
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