Sanremo 2020 - Day 3

Sanremo visto da Sherwood

7 Febbraio 2020

Era da quando Simone Cristicchi vinse l’edizione 2007 che non mi fermavo una sera a guardare il Festival di Sanremo. Allora, da giovane studente di psicologia, ero incuriosito da questo artista dai capelli ricci che avevo visto solo su MTV cantare canzoni ironiche come Vorrei cantare come Biagio Antonacci e che invece affrontava, davanti all’enorme platea televisiva, un tema a me caro come quello della malattia mentale, con un taglio quasi basagliano che mi affascinava moltissimo.

Ieri sera invece, per il terzo appuntamento del "Festival della canzone italiana", mi sono seduto sul divano con in mente un Brian Molko dei Placebo che distrugge una chitarra e un amplificatore a Sanremo 2001 e degli imbarazzatissimi Raffaella Carrà e Piero Chiambretti che provano a riavvicinarsi a quell’Italietta che musicalmente era rimasta  a prima di Jimi Hendrix, inorridita e che reagiva con fischi a quel gesto da rockstar. Speravo in qualche colpo di testa di qualche artista che mettesse in imbarazzo Amadeus, ma scorrendo la scaletta della serata questa speranza è svanita quasi subito.

Il mio approccio al Festival non è certo quello di chi vede Sanremo “perché Sanremo è Sanremo”, ma piuttosto quello di chi cerca la rottura nei confronti dei vetusti canoni di quello che è ormai rimasto l’ultimo spettacolo nazionalpopolare in Italia.

E allora pronti a questa carrellata di duetti e cover, una serata che ripercorre i settant’anni di Festival attraverso arrangiamenti di canzoni che hanno fatto la storia di Sanremo, portate sul palco dell’Ariston dagli artisti in concorso. Non ero certamente ben disposto visti gli spettacoli fatti nell’ultimo anno dalla Rai, in cui diversi cantanti si sono avvicendati per rendere omaggio a leggende della musica italiana come Battisti, De Andrè o Dalla, e i cui risultati si erano dimostrati decisamente scadenti, con arrangiamenti musicali estremamente pomposi che andavano a snaturare l’essenza di capolavori del cantautorato italiano. Il programma prevede, oltre a cover e duetti, ospiti internazionali, come nel consueto stile del Festival, e l’attesissima performance del premio Oscar Roberto Benigni.

Già all’inizio della serata arriva la prima sorpresa: non saranno i telespettatori a votare l’interpretazione dei concorrenti ma sarà l’orchestra del Festival. Rimango piacevolmente colpito dal fatto che saranno musicisti a dare una valutazione e che questa non sarà invece influenzata dal senso estetico di un pubblico certamente meno competente in materia di musica.

Si parte ed è il turno di Deborah, successo di Fausto Leali e Wilson Pickett a Sanremo 1968, interpretata da Michele Zarrillo insieme proprio a Fausto Leali; il risultato mi sorprende, la canzone rispetta l’originale e l’apporto di Leali alla riuscita dell’esibizione  è fondamentale.

È poi la volta del criticatissimo Junior Cally che, insieme ai Viito, porta in scena una versione assolutamente discutibile e che per nulla mi convince di Vado al massimo di Vasco (Sanremo 1982). Penso: “Ecco, stiamo ritornando sui canoni del Festival che conosco”. Questa mia impressione viene confermata quando è il turno della presentazione di  Georgina Rodriguez, compagna dell’arcinoto giocatore della Juventus Cristiano Ronaldo. Un siparietto in cui il protagonista è il tifo calcistico che sinceramente mi imbarazza molto. Ce ne saranno diversi di questi siparietti che vedranno protagonista un imbarazzato CR7 in platea, e sui cui, sinceramente, preferisco non trattare in questo articolo.

Ritorna finalmente la musica con Marco Masini e Arisa che si esibiscono in una versione di Vacanze Romane dei Matia Bazar (1983), performance che non impressiona e con qualche “stecca” di troppo da parte di Arisa. È quindi il turno dei fuoriusciti dalla “scuderia talent show” con Riki e Anastasio, che si esibiscono rispettivamente in, L’Edera di Nilla Pizzi (1958), una scelta di sicuro lontana nel tempo e che non rende nell’interpretazione del giovane rapper di “Amici”, e Spalle al muro di Renato Zero (1991) in un’interessante versione insieme ai veterani della musica italiana Premiata Forneria Marconi. In mezzo ai due un Raphael Gualazzi, in una versione vicina al jazz (non me ne vogliano male i puristi del genere) di E se domani di Mina (1964) che non ammalia ma in cui spicca la bellissima voce di Simona Molinari.

Apprezzo molto la scelta di Levante di portare una canzone originariamente cantata da tre uomini, Umberto Tozzi, Gianni Morandi e Raf in una versione con invece tre donne, lei, Francesca Michielin e Maria Antonietta. La canzone è una di quelle che non puoi sbagliare, Si può dare di più, e questo sicuramente aiuta un’interpretazione che però non rimarrà certo negli annali di Sanremo, abbastanza anonima. Come non penso ci ricorderemo quella di Alberto Urso accompagnato da Ornella Vanoni non certo in forma strepitosa che si sono esibiti in La voce del silenzio di Tony Del Monaco e Dionne Warwik (1968). Anche Elodie accompagnata dal maestro Aeham Ahmad non impressiona con il classicone Adesso tu di Eros Ramazzotti (1986).

Arriva quindi il turno di Rancore, uno di quegli artisti che apprezzo, quelli che quando vanno a Sanremo vado almeno a cercarmi il video. Porta una delle canzoni uscite da Sanremo che apprezzo di più, Luce di Elisa (2001), ne porta una versione che sinceramente mi lascia soddisfatto, aiutato da Dardust e da una strepitosa La Rappresentante di Lista, che dà un qualcosa in più con la sua voce potente e precisa.

È quindi tempo di presentare gli ospiti; inizia Lewis Capaldi, cantautore britannico classe 1996, che si esibisce in due brani del suo repertorio e che nel minuto di chiacchiere che fa con Amadeus impartisce una lezione di stile ai giovani nostrani che partecipano al festival. Lewis apre la strada a uno straripante Roberto Benigni, che arriva accompagnato dalla banda dentro a un Teatro Ariston che lo accoglie con un’ovazione. Il premio oscar si esibirà in un monologo di circa quaranta minuti, in cui decanterà il Cantico dei Cantici, con l’espediente di portare a Sanremo “la prima canzone scritta nella storia dell’umanità” che è “la vetta della poesia di tutti i tempi” e che definisce come un “elogio all’amore, che fa paura, che è la nostra realtà e che è capace di vincere anche la morte”. È una recitazione da brividi, a cui Benigni ci ha già abituato, che ammutolisce l’Ariston (e anche me sul divano) e sfocia in una gigantesca standing ovation. Non manca nemmeno la frecciatina a Salvini nel primo scambio di battute con Amadeus “da quest’anno si potrà votare anche via citofono.  Potete citofonare e chiedere: Scusi, qui si canta?”.

Proseguendo con la musica, è la volta dei Pinguni tattici nucleari che portano un medley di otto canzoni dal titolo 70 volte Sanremo. Risalta sicuramente di più il loro outfit in completini color pastello che il loro arrangiamento, del quale rimane in memoria davvero poco.

Ho iniziato parlando di Simone Cristicchi, ed Enrico Nigiotti, in concorso al festival, viene accompagnato proprio da Cristicchi sul palco per esibirsi in Ti regalerò una rosa. La canzone è ben riuscita, praticamente uguale all’originale e Cristicchi fa da padrone della scena, chiudendo la performance come tredici anni prima, salendo su una sedia e facendo finta di prendere il volo, un riferimento alla malattia mentale. Peccato che il concorrente sia Nigiotti che purtroppo passa del tutto inosservato.

Spazio ancora agli ospiti quindi, dopo il tango di Georgina sale sul palco dell’Ariston Mika che cita Dalla, Battiato e De Andrè come coloro che gli hanno fatto conoscere l’Italia e la musica italiana, e si esibisce in Amore che vieni, amore che vai di quest’ultimo. Canzone che non ha bisogno di commenti e di cui Mika si rende valido interprete. Ci sarà spazio anche per Tiziano Ferro più avanti nella serata.

Scorrendo la scaletta, tocca a Giordana Angi e il Solis String Quartet con La nevicata del ‘56 di Mia Martini (1990) e de Le Vibrazioni accompagnati dai Canova che portano Un’emozione da poco di Ana Oxa (1978), esibizione che ci porteremo più nel cuore per la direzione di Peppe Vessicchio che per la performance degli artisti.

Si adatta alla perfezione invece 24 mila baci di Adriano Celentano (1961) a Diodato e una fantastica Nina Zilli, che appare in perfetto stile “sixties”. Si rivelerà giusta anche la scelta della vincitrice della serata Tosca, che insieme alla talentuosa cantante spagnola Silvia Perez, si esibisce in una versione “spagnoleggiante” di un’immortale Piazza Grande di Lucio Dalla.

Sorvolando su Rita Pavone e Amedeo Minghi con 1950 di quest’ultimo, è la volta di Achille Lauro, che già aveva fatto scalpore per il suo outfit durante la prima serata. Questa volta, accompagnato da Annalisa, si presenta sulla scalinata dell’Ariston scimmiottando il “Duca Bianco” David Bowie. Risalta anche in questo caso di più il suo delirio di onnipotenza rispetto alla performance di Gli uomini non cambiano di Mia Martini (1992). Sarebbe il caso di sorvolare anche sull’esibizione di Bugo e Morgan, completamente scoordinati nell’esecuzione di Canzone per te di Sergio Endrigo, con il solito protagonismo eccessivo di Morgan.

Attendevo anche Piero Pelù, che porterò sempre nel cuore per i Litfiba, fu loro il primo CD che acquistai in un negozio di dischi. E dopo Irene Grandi accompagnata da Bobo Rondelli con La musica è finita di Ornella Vanoni, è proprio il turno del frontman dei Litfiba. Apprezzo tantissimo la scelta, Cuore matto di Little Tony; purtroppo Pelù non brilla, ma mi lascia comunque soddisfatto. Saluta il pubblico Sanremese mostrando il lutto al braccio, motivandolo con la sua vergogna di essere uomo ogni volta che c’è un femminicidio.

Nel trittico finale della serata spicca solo Paolo Jannacci, che si esibisce insieme al “solito idiota” Francesco Mandelli in Se me lo dicevi prima, portata a Sanremo dal padre Enzo nel 1989. È una performance che mi diverte, che porta in scena quel “teatro e musica” che caratterizzava Enzo Jannacci, pieno di umorismo e di una presa in giro di quella “milanesità” che non esiste più. Un commovente omaggio da parte del figlio Paolo al padre Enzo che mi strappa un sorriso soddisfatto. Sorvolerei su Elettra Lamborghini e Myss Keta, imbarazzante la loro versione completamente stonata di Non succederà più di Claudia Mori (1982). Infine Gabbani, che porta la nostra principale esportazione in Transnistria, L’Italiano di Toto Cotugno (1983), ma che sorprende solo per una tuta da astronauta completamente decontestualizzata da tutto il resto.

La serata si chiude con la co-conduttrice di Amadeus, la star televisiva albanese Alket Vejsiu, che prima di interpretare Una lacrima sul viso insieme all’autore Bobby Solo, è protagonista del palco con un monologo il cui messaggio è di una musica che abbatte le frontiere, che scade purtroppo in luoghi comuni e banalità sul periodo di Enver Hoxha.

Vince quindi Tosca davanti a Piero Pelù e Pinguini Tattici Nucleari. Ma la classifica mi interessa poco. Apprezzabile l’iniziativa di questa serata di dare tanto spazio alle donne, anche con il messaggio lanciato nel momento dedicato al concerto che si terrà al Campovolo di Reggio Emilia contro la violenza sulle donne e i microfoni rossi usati per tutta la serata dagli artisti (Elettra Lamborghini e Myss Keta a parte, hanno preferito i lustrini) in segno di solidarietà a questa campagna contro la violenza sulle donne.

Foto: Matteo Rasero/LaPresse

 
 
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